Il conflitto israelo-palestinese ha raggiunto livelli di brutalità senza precedenti, esacerbato dalle spietate azioni di Hamas e dalle feroci ritorsioni di un governo israeliano sempre più oltranzista. Tra violenze, sofferenze e assenza di strategie di lungo termine, emergono interrogativi inquietanti. Quali errori passati hanno aggravato la crisi? È possibile immaginare una via verso il dialogo e la pace? La complessità della situazione richiede uno sguardo lucido e una spinta verso soluzioni sostenibili. Perché, citando Amos Oz, lo scontro fra israeliani e palestinesi nasconde due guerre che si combattono simultaneamente. Ce ne è una «ingiusta», che è quella mossa dal terrorismo fondamentalista di Hamas per dare vita a uno Stato islamico nella Palestina intera, ma c’è anche una guerra «giusta», che è quella combattuta dai palestinesi per avere un loro Stato. Specularmente, Israele combatte una guerra «giusta», per difendere il suo diritto a esistere, e una «ingiusta», per perpetuare l’occupazione della Cisgiordania e l’espansione degli insediamenti ebraici.
Il conflitto israelo-palestinese si è incrudito in un’orgia di brutalità nel corso di quest’anno, dopo l‘aberrante eccidio di massa di israeliani e di altri abitanti del Sud di Israele da parte di militanti organizzati e armati da Hamas. Nel governo di Israele, le fazioni più oltranziste hanno spinto a una ritorsione massiccia. Non si fa distinzione tra i mandanti e manovali del terrore e i palestinesi come popolo, percepito dall’opinione pubblica maggioritaria del Paese come un nemico che non merita fiducia, che non può essere interlocutore di un negoziato, che deve essere domato con la forza delle armi.
Al di là della cruda conta delle vittime, dei lutti e delle sofferenze di gente segnata per la vita dalla violenza, la mancanza di una strategia di lungo termine in ognuno degli antagonisti attanagliati in un conflitto nefasto sconcerta l’osservatore imparziale e ancor più sgomenta chi come noi partecipa empaticamente del dramma dei due popoli.
Hamas non ha una strategia: per lungo tempo ha condotto da Gaza una sciagurata guerra di guerriglia che ne ha esposto gli abitanti alle ritorsioni di Israele e non ha abdicato, nel suo settarismo ideologico, al principio del rifiuto dell’esistenza di Israele. Mosso da un’ideologia fra il nichilismo e la jihad integralista, Hamas ha fatto della strage di civili un metodo deliberato di lotta nell’illusione di piegare Israele con la violenza. La condizione della popolazione sul piano dell’economia, della disponibilità di energia, dell’ambiente e della sanità, era drammatica anche prima dell’ottobre 2023.
Quale strategia persegue Israele? Forse è stato un errore fissare condizioni troppo cogenti nel 2007, al momento del successo elettorale e poi della presa del potere da parte di Hamas, per avviare un negoziato. Era lecito imporre restrizioni all’ingresso di beni e materiali per scongiurare il loro uso per produrre armi o costruire tunnel sotterranei da cui penetrare nel territorio di Israele. Ma la natura del blocco, pur interrotto durante limitati periodi di tregua, è stata esiziale per la gente di Gaza.
A partire dal 2022 il governo concesse, peraltro, permessi di lavoro in Israele a lavoratori abitanti nel territorio di Gaza. Perché non si consentì a piccole imprese manifatturiere di esportare beni e semilavorati verso la Cisgiordania e lo stesso Israele, al fine di stimolare l’economia e la formazione di una classe imprenditoriale interessata a un futuro di coesistenza pacifica?
Con il ritiro unilaterale di Israele nel 2005, Gaza poteva costituire un embrione di Stato palestinese. Ma, per diventarlo degnamente, avrebbe avuto bisogno di un legame fisico e politico con la Cisgiordania (come le trattative successive agli accordi di Oslo del 1993 prefiguravano) e di luoghi di transito aperti, oltre che di un confine davvero sovrano con l’Egitto. Nel frattempo, ciò avrebbe potuto consentire un avvio di progresso civile ed economico per quella terra diseredata.
Così non è stato. I palestinesi ne portano gravi responsabilità, in particolare il governo dispotico e militarizzato di Hamas. Ma Israele avrebbe potuto fare molto. E forse potrebbe fare ancora, dopo la sconfitta politico-militare di Hamas, con un futuro governo formato da una leadership locale o con il ritorno a Gaza dell’Autorità palestinese, assieme a una complessa e costosa opera di ricostruzione finanziata dalla comunità internazionale.
Si era formata, nei fatti, una «malefica alleanza» fra Hamas e Benjamin Netanyahu, che resta l’artefice primo di una strategia rivolta da anni a separare Gaza e Cisgiordania, Hamas e Autorità palestinese, al fine di evitare un negoziato di pace che contempli la fine dell’occupazione e la nascita di uno Stato palestinese sovrano.
Geografia e storia dei luoghi dell’eccidio dell’ottobre 2023 sono ambedue cariche di simbolismo. Oltre alle città vicine quali Sderot e Ashkelon, colpite ripetutamente dai razzi, anche i piccoli kibbutzim quali Kfar Azza, Nir Oz, Nahal Oz e Be’eri, dove l’obbrobrio della strage di civili è stato più acuto, avevano una tradizione di attività di coesistenza con i «vicini» abitanti nella Striscia. Organizzate da Ong israeliane quali Road to Recovery e Physicians for Human Rights, tali attività erano rivolte soprattutto ad assistere presso ospedali israeliani malati palestinesi bisognosi di cura. Non pochi fra gli uccisi e i rapiti erano attivisti impegnati in quest’opera di volontariato.
Forse il trauma di questi eventi funesti rivelerà alla coscienza di Israele come sia illusoria da una parte l’opinione che il conflitto si possa risolvere senza porre fine all’occupazione e dall’altra la convinzione di potere reprimere le aspirazioni palestinesi a uno Stato degno di questo nome. Ma il trauma potrebbe anche indurire ancor più gli israeliani, convinti che i palestinesi tutti siano come Hamas e che uno Stato lungo i 500 km del confine con Israele sia un pericolo esiziale.
Il trauma ha messo in forse comunque due elementi chiave della coscienza di sé del Paese: la fiducia nella forza delle armi e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica mondiale. Ambedue ora sono fortemente compromesse. Ma ha messo in forse anche l’assioma che la deterrenza di Israele da un lato e la prudenza strategica dell’Iran dall’altro avrebbero evitato un’estensione del conflitto al Nord del Paese con le milizie di Hezbollah in Libano e quelle sciite protette e armate dall’Iran in Siria, Irak e Yemen. È misura inquietante di tutto ciò l’isolamento politico del paese, le condanne degli organismi internazionali, l’ostracismo talora vistoso e irritante anche in campo culturale e accademico di istituzioni israeliane.
La sicurezza di Israele non può fondarsi sulla mera forza delle armi. Uno Stato ebraico non garantisce, di per sé, la sicurezza fisica dei suoi abitanti e neanche la definitiva eliminazione della loro condizione di precarietà. Anzi, il trauma immane di questi giorni ha acuito il senso di insicurezza, l’angoscia di un Paese forte ma anche debole, occupante ma anche assediato.
La gravità del trauma, il panico che ne è seguito, le deficienze nel prevedere-prevenire l’eccidio di Hamas e nel reagirvi in tempo – il tutto sarà forse oggetto di commissioni di inchiesta per ora posposte indefinitamente per volere del premier Netanyahu – hanno concorso a innescare forme di ritorsione massiccia. L’apparato militare così esteso in Cisgiordania a protezione delle colonie e dello scellerato processo di annessione di parti rilevanti di quel territorio aveva forzato l’esercito a ridurre drasticamente le difese lungo i confini settentrionali con Hezbollah e meridionali con Hamas.
Forse hanno prodotto «eccessi» anche la spinta a «restaurare» una deterrenza messa in forse dall’aggressione di Hamas, fino a imporre costi alla popolazione di Gaza perché insorga contro il potere dispotico di Hamas stesso. La sicurezza esige certamente la sconfitta di Hamas e del suo dispositivo militare, ma anche la convinzione della popolazione che dall’azione non-violenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente.
È quindi interesse preminente di Israele agire per dissociare la società palestinese dall’estremismo. Lo impongono sia un imperativo etico che il raziocinio politico-pragmatico. Le azioni militari al più agiscono da deterrente nel breve periodo, ma mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per gli estremisti e isolano Israele dalla comunità delle nazioni, per l’eccesso di violenza contro i civili pur nell’esercizio del diritto di autodifesa. Diritto legittimo, ma la questione è come esercitarlo così come prescrivono le leggi di guerra, le convenzioni dell’Aja del 1907 nonché le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949.
Il dibattito con i suoi risvolti etico-politici complessi è duro e doloroso. Lo confermano le accuse rivolte a Israele da ONU, UNRWA, OMS e molteplici organizzazioni e ong attive sui diritti umani, assieme all’istruttoria svolta dal Tribunale penale internazionale che ha appena emesso un ordine di arresto contro Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, con l’imputazione di crimini di guerra e contro l’umanità per le distruzioni, privazioni, omicidi di civili nella striscia di Gaza.
Come affermava anni fa Amos Oz, uno dei più noti scrittori israeliani, la guerra fra Israele e i palestinesi nasconde in realtà due guerre che si combattono simultaneamente. Una guerra, «ingiusta», è quella mossa dal terrorismo fondamentalista di Hamas contro Israele per dare vita a uno Stato islamico nella Palestina intera. L’altra guerra, «giusta», è quella del popolo palestinese che aspira a uno Stato degno di questo nome. Specularmente, Israele combatte anch’esso due guerre: una, «giusta» per la difesa del suo diritto a esistere come popolo e come Stato; l’altra «ingiusta» e futile, per perpetuare l’occupazione dei territorrgio Gomeli e le colonie ebraiche ivi insediate.
Quale è dunque una posizione equilibrata di un mondo progressista attento ai valori umanitari? È giusto opporsi al permanere dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, ai propositi di ulteriori annessioni di parti rilevanti di quel territorio, nonché ribadire l’urgenza di una risoluzione equa e a lungo termine del conflitto che avviluppa da oltre un secolo due popoli su quel minuscolo lembo di terra conteso. Ma uno stesso imperativo etico impone una condanna ferma dell’attacco omicida di Hamas contro civili e del sequestro di ostaggi.
In alcuni casi non si è condannata la violenza, asserendo che terze parti non hanno il diritto di giudicare le azioni degli oppressi. Altri hanno sottovalutato la gravità del trauma che affligge Israele, argomentando che lo stesso Israele ha prodotto con le sue azioni detta tragedia. Altri «utili idioti», anche nelle università italiane, fagocitati da un presunto «anti-occidentalismo», rigettano Israele come Stato «coloniale» o «post coloniale», fingendo di ignorare nel contempo il sadismo infame e l’integralismo omicida di Hamas. Per altri ancora, l’eccidio di massa di israeliani il 7 ottobre è stato un motivo perverso per celebrare.
Forse il principio cui dovremmo ispirarci in queste drammatiche circostanze è quello della «doppia lealtà». Anziché attribuire colpe e di infliggere punizioni, il compito che ci spetta è quello di offrire ponti e spingere le parti in lotta al dialogo, riprendendo la logica degli accordi di Oslo. Nel 1993, il riconoscimento reciproco dei diritti aveva dischiuso uno spiraglio di speranza: conciliare il diritto alla pace a e alla sicurezza per Israele con quello a uno Stato indipendente per i palestinesi. Soprattutto è essenziale, come impegno della società civile, in sostegno «dal basso» all’attivismo della diplomazia «dall’alto», affermare l’illiceità della violenza contro i civili, da una parte e dall’altra; rigettare la disumanizzazione del «nemico», riconoscendo pur con fatica le ragioni dell’altro.
Giorgio Gomel
fonte Krisis 26 novembre 2024