Israele e Palestina, una pace possibile

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Il trauma della strage del 7 ottobre 2023 e della guerra su Gaza che ne è scaturita  rivelerà forse alla coscienza di Israele come sia illusoria l’opinione che il conflitto  si possa risolvere senza porre fine all’occupazione e alla convinzione di potere reprimere le aspirazioni palestinesi  ad uno stato degno di questo nome. O forse all’opposto indurirà ancor piu’ gli israeliani convinti che i palestinesi tutti siano come Hamas e che uno stato  lungo i 500 km  del confine orientale con Israele sia un pericolo esiziale. Il trauma ha messo in forse comunque due elementi chiave della coscienza di sé del paese, già profondamente scisso al suo interno fra spinte autoritarie e difesa della democrazia : la fiducia nella forza delle armi e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica mondiale.  Ambedue ora fortemente compromesse.

E’ misura inquietante di tutto ciò l’isolamento politico del paese, le condanne di organismi internazionali e ONG operanti in ambito umanitario, le istruttorie in corso presso i Tribunali internazionali,  l’ostracismo  vistoso e irritante anche in campo culturale e accademico di istituzioni israeliane. Il trauma inflitto sulla psicologia degli israeliani dall’obbrobrio di Hamas ha generato, come sottoprodotto in parti cospicue dell’opinione pubblica, un anelito all’annientamento del nemico,  visto come legittimo e necessario a restaurare una “deterrenza” perduta sui confini del paese e al suo interno.  La sicurezza di Israele non può  fondarsi sulla mera forza delle armi ma esige anche la convinzione della popolazione palestinese che dall’azione non-violenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente .    Le azioni militari al più agiscono da deterrente nel breve periodo, ma mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per gli estremisti  e isolano Israele dalla comunità delle nazioni per l’eccesso di violenza contro i civili pur nell’esercizio del diritto di autodifesa.

.La questione più urgente concerne gli interventi umanitari volti ad assistere la popolazione di Gaza, costretta ad abbandonare le case ed affollarsi nel sud della striscia.Il secondo problema concerne il governo della stessa striscia  dopo  il ritiro dell’esercito israeliano. Dovrebbe essere esclusa  una rioccupazione da parte di Israele neppure per un periodo limitato, come le componenti più integraliste e scioviniste del governo e della società rivendicano . Le uniche opzioni possibili sono, dopo un periodo interinale gestito da una forza internazionale di interposizione, l’emergere di una nuova leadership palestinese in loco, antagonista a Hamas e aliena alla sua ideologia islamista, oppure il ritorno di Gaza sotto il controllo dell’Autorità palestinese di Ramallah che ne fu esclusa violentemente nel 2007. Un iter difficile , ma  possibile, ragionevole forse nel più lungo termine, come gli stessi accordi di Oslo  prefiguravano, con un legame fisico e politico fra Gaza e Cisgiordania  al fine di dare luogo ad un futuro stato di Palestina autonomo.

L’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania,  la demolizione di case e infrastrutture  che li privano di luoghi di abitazione e fonti di sostentamento fino a forzarli ad un abbandono  delle proprie terre, rendono la nascita di uno stato palestinese che abbia contiguità territoriale, autosufficienza economica ed effettiva sovranità via via più difficile.  I palestinesi sono  impotenti, divisi fisicamente fra Cisgiordania e Gaza, fra il moderatismo della ANP e del suo presidente Abu Mazen e l’estremismo islamista di Hamas. Nella Cisgiordania sono “non-cittadini” del “non-Stato” in cui vivono (le aree A e B in cui la ANP esercita la sua limitata giurisdizione)  dove dal 2006 non esercitano il diritto di voto per il continuo rinvio delle elezioni , né possono votare e quindi influire sull’operare di quello stato, Israele, che di fatto controlla la loro quotidiana esistenza. Non sono solo i circa 450.00 coloni negli insediamenti  a rendere la soluzione “ a due stati”  difficile sul terreno; essa resta l’opzione preferita da circa un terzo degli israeliani , ma  una vasta parte della società  ha rinunciato ai due stati, ritiene che la pace non sia davvero possibile, guarda ai palestinesi come a  un nemico ingrato e irriducibile ma che si può contenere in  un conflitto “a bassa intensità”. Eppure la guerra distruttrice con Hamas , con il numero altissimo di vittime soprattutto civili e gli immani danni materiali,  dimostra che il costo della non-pace è enorme e l’illusione che i palestinesi accettino  un’ occupazione umiliante è pericolosa, con effetti nefasti per la democrazia in israele.  Secondo  sondaggi d’opinione  più di due terzi degli israeliani approvano l’idea di un accordo  che includa la “ normalizzazione di rapporti con l’Arabia Saudita, una coalizione regionale contro l’Iran e un processo di separazione dai palestinesi, con l’appoggio degli Stati Uniti e dei paesi arabi moderati”; di fatto prefigurando il nascere di uno stato palestinese autonomo, pur senza nominarlo esplicitamente in linea con gli umori dominanti nell’opinione pubblica di centro del paese.

Il principio cui dovrebbe ispirarsi il mondo progressista in queste drammatiche circostanze è quello della “doppia lealtà” : invece di attribuire colpe,  il compito che ci spetta è quello di offrire ponti, spingere le parti in lotta al dialogo, riprendere la logica degli accordi di Oslo del 1993 quando il riconoscimento reciproco dei diritti aveva dischiuso uno spiraglio di speranza : il conciliare il diritto alla pace  e alla sicurezza per Israele con quello ad uno stato indipendente per i palestinesi. Soprattutto , è essenziale, come impegno della società civile in sostegno “dal basso” all’attivismo della diplomazia “dall’alto”,   affermare l’illiceità della violenza contro i civili, da una parte e dall’altra; rigettare la disumanizzazione del “nemico” ; riconoscere pur con fatica le ragioni dell’altro.

La società civile nelle due nazioni – Israele e Palestina –  è  attiva con una miriade di ONG dedite a rompere la separazione e   crescente radicalizzazione soprattutto dei giovani.  Le ONG agiscono in una varietà di ambiti – educativo,   sanitario, ambientale, imprenditoriale, interreligioso – con un comune denominatore: opporsi alla percezione “dell’altro” come nemico. Contro lo scetticismo di molti rassegnati ad un conflitto tra nemici che appaiono irriducibili, dominati dall’isteria nazionalista e dal rifiuto delle ragioni dell’altro, resta  forte l’impegno di  tali associazioni . Fra queste le numerose ONG israelo-palestinesi, federate sotto l’egida di Alliance for Middle East Peace –  ALLMEP . Un lavoro, continuo, sotterraneo, spesso ignorato, ma prezioso  di movimenti della società civile dediti alla coesistenza.

Geografia e storia dei luoghi dell’eccidio del 2023 sono ambedue cariche di simbolismo. Oltre alle città vicine quali Sderot e Ashkelon, colpite ripetutamente dai razzi, anche i piccoli kibbutzim quali Kfar Azza, Nir Oz, Nahal Oz e  Be’eri, dove l’obbrobrio della strage di civili è stato più acuto, hanno una tradizione di  attività di coesistenza con i “vicini” abitanti nella striscia, organizzate da ONG israeliane quali Road to Recovery e Physicians for Human Rights,  attività rivolte soprattutto ad assistere presso ospedali israeliani malati palestinesi bisognosi di cura. Non pochi fra gli uccisi e i rapiti erano attivisti impegnati in quest’opera di volontariato. .

L’impegno attuale di ALLMEP si concentra oggi, anche nei giorni dell’Assemblea ONU di New York, sul convincere i paesi sviluppati ad istituire un fondo internazionale per la pace israelo-palestinese, simile per alcuni aspetti a quello che sostenne il negoziato di pace nell’Irlanda del Nord e  diretto a gestire in modo multilaterale risorse ed idee della comunità dei donatori. Gran Bretagna,  Canada, Francia, Italia e anche paesi del Medio Oriente arabo hanno manifestato disponibilità ad avallare il progetto al fine di costruire un meccanismo pienamente multilaterale. L’urgenza del momento nella regione lo motiva più che mai.

Giorgio Gomel

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