Guerra e pace in Israele e Palestina

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Sullo scorcio dell’anno le guerre si vanno incrudendo in un’orgia di brutalità, producendo sempre piu’ vittime civili, devastando loro luoghi e fonti di sostentamento. Lo osserviamo nel conflitto fra Russia e Ucraina giunto ormai al suo terzo anno, così come nella guerra in corso fra Israele e Hamas con il pericolo crescente di una sua estensione, al confine fra Israele e Libano, con le milizie di Hezbollah e quelle sciite loro alleate in Siria armate dall’Iran. E’ difficile immaginare oggi nell’orrore della guerra in atto un accordo di lungo termine che contempli la fine del terrorismo di Hamas contro Israele, l’interruzione del contrabbando di armi verso Gaza, una forza multinazionale di interposizione fra le parti, l’enorme opera di ricostruzione dopo il disastro materiale ed umanitario e materiale.

Eppure occorre pensare al “giorno dopo”, al come ricomporre, dopo la cruda conta delle vittime, un minimo di ordine civile ed economico a Gaza e favorire così la strada verso la convivenza pacifica fra israeliani e palestinesi . Il compito che ci spetta in quanto opinione pubblica attenta ai diritti umani, convinta dell’esigenza di spartire una terra contesa fra due popoli e due diritti di pari dignità non è quello di attribuire colpe, di infliggere punizioni. E’ quello di offrire ponti, spingere le parti in lotta al dialogo, riprendere la logica degli accordi di Oslo del 1993 quando il riconoscimento reciproco dei diritti aveva dischiuso uno spiraglio concreto di speranza : il conciliare il diritto alla pace e alla sicurezza per Israele con quello a uno stato indipendente per i palestinesi.

Il trauma inflitto dall’eccidio di massa perpetrato da Hamas il 7 ottobre, il senso angoscioso di insicurezza da esso acuito nella psicologia degli israeliani tendono ad ottunderne la sensibilità alle sofferenze dei palestinesi di cui si vede soltanto la minaccia terroristica. In parti dell’opinione pubblica, nei media, nei proclami delle componenti scioviniste ed integraliste della società domina l’anelito alla vendetta, persino all’espulsione degli abitanti di Gaza dalla loro terra.

Un meccanismo analogo agisce fra i palestinesi che demonizzano Israele in quanto aggressore. Nei sondaggi d’opinione successivi alla strage del 7 ottobre quella strage gode del sostegno della popolazione, piu’ in Cisgiordania che nella stessa Gaza perché simboleggia la “resistenza” ad Israele occupante quando le modalità di azione non violenta – il negoziato, le proteste della società civile, la cooperazione in materia di sicurezza fra l’Autorità palestinese e Israele – appaiono fallite. Così nell’uno e nell’altro campo è la difesa delle proprie esclusive ragioni a dettare legge, fino a disumanizzare il “nemico”.

L’illusione militarista di Hamas di piegare Israele con la violenza è sconfitta ; dalla vittoria elettorale del 2006 ha alimentato una guerriglia contro Israele interrotta da periodi limitati di tregua. Il ritiro israeliano da Gaza nel 2005 poteva essere il preludio a futuri, necessari ritiri di Israele da parti rilevanti della Cisgiordania. Gaza era un embrione di stato palestinese, sebbene necessitasse di un legame fisico e politico con la stessa Cisgiordania, di luoghi di transito aperti, di un confine davvero sovrano con l’Egitto. Così non è stato. Il “rifiuto di Israele” e degli accordi di Oslo resta, nel settarismo ideologico di Hamas, un elemento paralizzante.

Dall’altro lato è vano per Israele affidarsi alla sola repressione senza offrire un negoziato che consenta ai palestinesi di cogliere i benefici concreti del ripudio della violenza e della nascita di uno stato sovrano. E’ legittimo il diritto-dovere di Israele all’autodifesa contro il sadismo infame di Hamas ma il punto è come esercitare quel diritto osservando le leggi di guerra, limitando i danni inferti ai civili, alle infrastrutture. Una “scelta tragica” date le condizioni materiali sul campo, la densità di popolazione, la contiguità ampiamente documentata fra l’apparato militare-terroristico di Hamas e i luoghi abitati. Le radici stesse del terrorismo si potranno però estirpare solo dall’interno della società palestinese; è interesse vitale di Israele fare tutto quanto è in suo potere per dissociarla dall’estremismo integralista di Hamas. Urge riprendere un negoziato con l’ANP sulle questioni degli insediamenti, dei confini con uno scambio paritario di territori fra i due stati, dello status di Gerusalemme, capitale condivisa dei due stati. Per quanto riguarda il “giorno dopo” di Gaza, le opzioni possibili sono l’emergere di una nuova leadership palestinese in loco, antagonista a Hamas e aliena alla sua ideologia jihadista , affiancata dal ritorno dell’ANP che ne fu esclusa violentemente nel 2007. Un iter difficile con una ANP delegittimata nell’opinione pubblica, accusata di autocrazia, corruzione e connivenza con Israele. Sicurezza e ordine potrebbero essere assicurati da una coalizione di paesi arabi che hanno concluso accordi di pace con Israele- Egitto, Giordania, Emirati arabi uniti, Arabia saudita, Bahrein e Marocco – sotto l’egida dell’ONU e con il sostegno fattivo degli Stati Uniti e dei paesi europei.

Giorgio Gomel

Confronti, gennaio 2024

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