A Tel Aviv si parla di pace durante la guerra

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Il giorno dopo un’incursione dell’aviazione israeliana volta a distruggere un tunnel dalla striscia di Gaza, in uno degli hotel un po’ pretenziosi sul litorale di Tel Aviv, Amos Shocken, editore di Haaretz e Akiva Eldar, uno dei giornalisti più intelligenti di Israele, hanno promosso un simposio sulla pace, parola da tempo in disuso nel vocabolario politico così come nel linguaggio ordinario della gente di Israele. L’8 luglio, intorno a quella parola hanno riunito una parte rilevante del mondo politico e intellettuale israeliano ed ebraico. Solo qualche nome : il presidente Shimon Peres, due ministri,Tzipi Livni e Naftali Bennett, leader dell’opposizione, Isaac Herzog, laburista e Zehava Gal-On, del Meretz, un ex primo ministro, Ehud Barak, un ex capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, un ex consigliere della sicurezza nazionale, Yaakov Amidror, due scrittori, David Grossman e Sayed Kashua, giornalisti come Gideon Levy, Peter Beinart, Chemi Shalev, un filosofo come Alain Finkielkraut.Un uditorio partecipe di oltre 1500 persone: presenti una delegazione di JCall (il movimento di ebrei europei in favore della pace e della soluzione a due stati) e di JStreet, consorella americana. Il materiale del simposio è disponibile anche in rete (Haaretz, Israel conference on peace). A mo’ di cronaca, anche l’esperienza di un primo allarme su Tel Aviv che ha costretto i partecipanti ad evacuare la sala.Riprendere il filo dei due stati
Il motivo ispiratore del convegno è stato quello di riportare la parola “pace” al centro dell’attenzione, demistificando la retorica che impera dal 2000, dopo il fallimento di Camp David e l’irrompere virulento della seconda intifada, per cui non vi sarebbe fra i palestinesi un “partner di pace”, e riesaminare oggi, alla luce della rottura della trattativa condotta con la mediazione americana, le condizioni per un accordo di pace fra Israele e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) sulla base del principio di “due stati per due popoli”, e con i paesi arabi sulla base dell’iniziativa di pace proposta dalla Lega Araba nel lontano 2002.

Sono mancati purtroppo i due oratori palestinesi, Saeb Erkat, il capo negoziatore dell’Anp, e Musib El-Masri, un importante imprenditore, a causa del precipitare del conflitto fra Israele e Gaza.

Ma il presidente dell’Anp, Abu Mazen, in una lettera aperta e in una intervista video, ha ricordato come l’ iniziativa di pace araba, cui Israele non ha mai risposto, offra a Israele i contorni di una soluzione che ponga fine al conflitto, normalizzi i rapporti con gli stati arabi, definisca un confine plausibile fra i due stati, con rettifiche territoriali concordate e garanzie adeguate di sicurezza, assicuri una Gerusalemme fisicamente unita e capitale condivisa dei due stati e un assetto ragionevole circa i rifugiati del 1948.

Peres, accolto da applausi scroscianti negli ultimi giorni del suo mandato, ha affermato anche lui come l’offerta di pace araba sia positiva per Israele per giungere a una soluzione a due stati, essenziale per il futuro di Israele come stato democratico ed ebraico.

Un accordo regionale conviene ai paesi arabi moderati e a Israele, dal momento che per entrambi il nemico è l’estremismo fondamentalista. Abu Mazen è un partner di pace sincero. La battaglia per vincere cuori e menti degli israeliani in favore della pace va unita a quella per la difesa della democrazia e contro il razzismo, valori essenziali dell’etica ebraica.

Sono seguite quattro sessioni, dedicate rispettivamente ai benefici economici della pace e ai costi della non-pace; al rapporto con la Diaspora americana ed europea; al legame fra il perpetuarsi del conflitto e dell’occupazione e il degrado della democrazia e dei diritti umani in Israele; alle implicazioni in termini di sicurezza di un eventuale accordo di pace.

Costo della guerra
Il costo del mantenere lo status quo non risiede solo nelle sue implicazioni per il bilancio pubblico, gravato da corpose spese militari, in un’economia segnata da acute diseguaglianze distributive.

Bisogna valutare anche il pericolo di sanzioni economiche, imposte a Israele da soggetti privati con le campagne di boicottaggio, o da soggetti pubblici, come la Commissione europea o gli stati membri dell’Ue, che distinguono, chiaramente e giustamente, fra le attività economiche svolte in Israele e quelle nei territori occupati, dove il diritto internazionale ritiene illegali gli insediamenti ebraici.

Per un’economia molto aperta agli scambi con l’estero e per la quale la Ue è il principale partner commerciale, la minaccia è rilevante. Un’altra questione importante è quella degli arabi di Israele, economicamente marginali: essi costituiscono il 20 per cento della forza lavoro del paese, ma generano solo il 7 per cento del reddito, e sono discriminati nell’acquisto di terre e nella possibilità di costruirvi nuove case.

Ebrei americani ed europei
Sull’ebraismo americano, la tesi di Beinart, autore di un libro che denuncia il cristallizzarsi di posizioni sempre più conservatrici nell’establishment, e di Jeremy Ben-Ami, presidente di JStreet, è che con il suo polarizzarsi fra gli ortodossi da un lato e dall’altro i laici, i non sionisti e coloro che sono lontani dall’ebraismo ufficiale, si sono acuite anche le divergenze nel rapporto con Israele.

In misura crescente per gli ebrei americani, soprattutto giovani, Israele non è più il luogo di rifugio e riscatto di un popolo oppresso, né un elemento di coesione identitaria; vi è rispetto ad esso un senso di estraneità crescente, in ragione del permanere dell’occupazione, delle violazioni dei diritti umani, del legame perverso fra potere politico e religioso, infine del degrado della democrazia.

Della vecchia Europa, degli ebrei europei e del legame fra il conflitto israelo-palestinese e rigurgiti di antisemitismo, ha parlato, anche, a nome di JCall, Alain Finkielkraut, filosofo e accademico di Francia. Due battaglie incombono sugli ebrei europei: quella in sostegno alla soluzione dei due stati, in difesa della democrazia e della tolleranza in Israele, contro la barbarie del razzismo anti arabo che inquina la società; e quella contro l’antisemitismo.

Un antisemitismo di due tipi: quello di matrice islamista, che sta soppiantando quello di tradizione fascista, e quello di una parte della sinistra o del mondo intellettuale, che demonizza Israele ben al di là delle legittime critiche all’occupazione e lo ritiene, in quanto stato-nazione fondato su un criterio di appartenenza etnica, un anacronismo da rigettare in un mondo cosmopolita, che ha superato i vecchi nazionalismi.

Diritti umani e razzismo
La sessione sui diritti umani è stata la più tesa e appassionata anche per le recenti nefaste vicende. Kashua, un giovane scrittore arabo-israeliano che scrive in ebraico libri di grande successo editoriale, ha ripetuto quanto scritto in un suo articolo molto sofferto su Haaretz: lascerà il paese perché non vi è futuro per i figli di un arabo in Israele, dove le zone più popolate da arabi sono neglette dal potere centrale dello stato e abbandonate al degrado, dove il pregiudizio razzista alligna, la predicazione della violenza si traduce in violenza fisica contro gli arabi.

Yisrael Harel, ex direttore di Yesha, il consiglio degli insediamenti, abitante a Ofra, un insediamento come tanti edificato su terreni privati di palestinesi espropriati, ha difeso le colonie, legittime creature dei governi di Israele via via succeditisi, e il comportamento dei coloni, in larga parte civilmente tolleranti.

Talia Sasson, giurista e redattrice anni fa di un rapporto sugli oltre 100 “outposts”, insediamenti piccoli e remoti, contrari alla stessa legge israeliana, alcuni dei quali oggetto di ordini di sgombero da parte della Corte suprema (ma disattesi dal governo), ha denunciato con grande forza il sottofondo di odio razziale che inquina larghe fasce della società israeliana, fino all’assassinio: se ai palestinesi si negano o rubano diritti e terreni, allora si può loro negare anche la vita.

Su questo punto, e sul legame fra il razzismo, le minacce alla democrazia e la spoliazione dei diritti che l’occupazione comporta, si sono espressi con gli stessi toni duri anche la Livni, Herzog e la segretaria del Meretz, Gal-On, anche se, paradossalmente, da fronti diversi: la prima, ministro della Giustizia in un governo dominato dalle destre, gli altri all’opposizione, convinti che i partiti di Livni e Yair Lapid dovrebbero lasciare un governo che non persegue la pace e forzare così nuove elezioni.

La questione della “sicurezza”
Sulle questioni strategiche e di sicurezza, due relatori pur distanti nelle loro posizioni, Diskin, dimessosi di recente da capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) in forte polemica con Netanyahu, e di cui si ricordano gli interventi nel documentario di Dror Moreh, “The Gatekeepers”, e Amidror, fino a tempi recenti consigliere per la sicurezza nazionale dello stesso Netanyahu, hanno convenuto sulla necessità di porre fine alla convivenza perversa fra occupante e occupato e quindi della “separazione” dei due popoli in due stati sovrani.

Il tema delle garanzie di sicurezza per Israele, dopo il ritiro dai territori, è complesso sia per il contrasto irrisolvibile, secondo Diskin, fra Fatah e Hamas, sia per la necessità di evacuare con gradualità e con adeguati indennizzi finanziari circa 150mila coloni. Amidror ritiene che, anche con una Palestina indipendente, Israele dovrà mantenere una presenza militare lungo il Giordano per “difendere” il fronte orientale.

Bennett, ministro e leader dell’estrema destra annessionista, ha inveito in tono provocatorio contro la sinistra, accusandola di una sequela di errori (Oslo, Camp David, il ritiro da Gaza nel 2005, la sottovalutazione della disgregazione in atto in Medio Oriente e il disastro del mondo arabo) e ha affermato che Israele non potrà lasciare la Cisgiordania per scongiurare il rischio di una presa del potere da parte di Hamas. Subissato di fischi e invettive, ha poi abbandonato il palco mentre l’editore di Haaretz implorava il pubblico, alla Voltaire, di rispettare la libertà d’espressione.

E infine i “profeti”
Grossman, il cui intervento è stato pubblicato anche dalla stampa italiana, imputa agli israeliani vittimismo e rassegnazione disperata. Da un lato l’antinomia fra il potere militare straripante di Israele e il persistere di una percezione di se stessi come vittime rende difficile l ‘esercizio misurato, ragionato, politico di quel potere.

Gli ebrei, privi di potere sovrano per secoli, sarebbero incapaci di esercitarlo ora che di quel potere dispongono, superando timori e ansie di sopravvivenza e facendo un passo decisivo verso la pace. Dall’altro un sentimento disperato di sfiducia nel “nemico”: anche quando quel nemico, nella persona di Abu Mazen o della Lega Araba, offre a Israele una chance di pace, con il prezzo che il compromesso impone, gli israeliani non credono a quella possibilità, ignorano o deridono gli interlocutori, si rinchiudono in una autistica disperazione.

Per Levy, uno dei giornalisti più militanti di Haaretz, la psicologia collettiva degli israeliani è colpevole: colpevole di non avere mai onestamente deciso di pagare il prezzo vero della pace, cioè la fine dell’occupazione e lo sgombero degli insediamenti; colpevole di non trattare i palestinesi come esseri umani con eguale dignità e pari diritti; colpevole infine di non riconoscere che la loro sofferenza ha la stessa dignità della propria.

Giorgio Gomel
economista, è membro del Comitato direttivo di JCall
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