Israele: conflitto permanente o integrazione nella regione?

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Il governo in carica in Israele – una coalizione fragile, dominata da componenti ideologicamente integraliste e scioviniste, osteggiata da ampi strati della popolazione, minoritaria nei sondaggi d’opinione – appare incapace di andare al di là dell’azione militare contro la barbarie di Hamas e di Hezbollah, di un anelito alla violenza mosso da un paese traumatizzato dall’obbrobrio dell’ottobre di un anno fa; incapace di pensare in modo strategico ad un futuro di integrazione nella regione e di coesistenza con i vicini.

Il discorso del premier Netanyahu all’Assemblea generale delle Nazioni Uniti alla fine di settembre, al di là della sua retorica teatralità, ne è stato la plastica e inquietante espressione.

La geografia politica del Medio Oriente descrive oggi una frattura profonda fra attori da una parte, patrocinati dall’Iran, che mirano a destabilizzare la regione e ad espandere per tale via la sfera di influenza del regime degli ayatollah, e dall’altra quei paesi che hanno concluso anni orsono accordi di pace con Israele – Egitto e Giordania- nonché quelli che hanno firmato in anni recenti gli Accordi di Abramo ed, infine, l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo Persico uniti nella difesa contro la quella che definiscono la minaccia iraniana e nella ricerca di stabilità regionale.

Almeno cinque governi di paesi della regione – Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Arabia Saudita – sono ostili ad Hamas (e all’ideologia che lo ispira, quella dei Fratelli Musulmani) e sarebbero disposti a partecipare ad una forza di interposizione e gestione temporanea della Striscia di Gaza, con un accordo di cessate-il-fuoco e il conseguente ritiro dell’esercito israeliano. Un intervento che però dovrebbe rispondere ad una precisa richiesta in tal senso dell’Autorità nazionale palestinese, e con essa coordinato come soluzione provvisoria ancorché protratta nel tempo in ragione della debolezza della stessa Autorità. Infine – conditio sine qua non – dovrebbe essere esplicito un impegno di Israele a riconoscere il diritto della nazione palestinese all’autodeterminazione e a un assetto politico di convivenza fra le due nazioni – il principio di “due stati per due popoli”.

La sicurezza di Israele esige la sconfitta di Hamas e della sua ideologia mortifera ma anche la convinzione della popolazione di Gaza e del resto della Palestina che dall’azione non violenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente. E quindi interesse preminente di Israele agire per dissociare la società palestinese
dall’estremismo fondamentalista di Hamas. Le azioni militari, dopo il trauma inflitto sulla psicologia degli israeliani dall’orrore del 7 ottobre che ha generato in parti cospicue del paese un anelito all’annientamento del nemico, alla violenza vista come legittima e necessaria a restaurare una deterrenza perduta, pur nell’esercizio del diritto all’autodifesa, mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per gli estremisti e isolano Israele dalla comunità delle nazioni.

Mentre il governo israeliano, nel suo oltranzismo autodistruttivo, insiste vanamente nel convincere gli stati arabi moderati (e l’opinione pubblica israeliana) che non c’è alcun legame tra fruttuose relazioni diplomatiche con quei paesi e la questione palestinese, anche i paesi che hanno già normalizzato tali relazioni con Israele sembrano essere giunti alla conclusione opposta, come attestato dal congelamento delle joint ventures con Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti e della posizione saudita reiterata recentemente in sede di Nazioni Unite per un’alleanza di paesi in favore della “soluzione a due stati” e conseguentemente l’integrazione nella regione di Israele in condizioni di sicurezza. Per stati arabi importanti la “soluzione a due stati” appare diventata un imperativo politico-strategico. Lo stesso governo saudita ha reso esplicito, diversamente dal passato, il suo intento di procedere a relazioni diplomatiche con Israele soltanto allorché vi siano progressi concreti verso la creazione di uno stato palestinese indipendente.

Come lo stesso Tamir Pardo, ex direttore del Mossad e membro del movimento “Commanders for Israel’s security” – un’associazione di ex vertici delle forze armate e dei servizi segreti israeliani impegnati nel sostegno ad iniziative di pace – ha affermato in un recente articolo, il rifiuto di Netanyahu di cogliere questi spiragli di trattativa e di normalizzare così i legami con l’Arabia Saudita e altri stati della regione impedisce anche la possibilità di un accordo per riportare a casa gli ostaggi israeliani prigionieri da un anno del sadismo di Hamas e affrancarsi dalla guerra di guerriglia in corso nella striscia di Gaza.

In alternativa e perdurando in una strategia ispirata dalla destra nazional-religiosa il futuro prossimo lascia intravvedere per Israele una prospettiva che non è esagerato definire apocalittica: un regime di occupazione di parti rilevanti del territorio di Gaza venti anni dopo il ritiro delle forze israeliane dallo stesso, il crescere delle violenze in Cisgiordania ad opera dei coloni e dell’esercito posto a loro protezione contro le comunità palestinesi, violenze e impunità degli aggressori che Ronen Bar, lo stesso direttore dei servizio di sicurezza interno di Israele ha denunciato in una lettera ufficiale al governo; l’ostracismo opposto ai molti paesi a relazioni normali con Israele fino al ricorso a sanzioni politico-economiche contro di esso; le sentenze avverse ad Israele di istituzioni importanti quali la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale; infine, il pericolo per Israele di dovere affrontare in solitudine un conflitto su più fronti con l’Iran e i suoi alleati e protetti nella regione.

 

Giorgio Gomel

fonte CeSPI 7 ottobre 2024

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