Anche chi non nutra nessuna particolare ammirazione per l’Impero Britannico, macchiatosi nella sua lunga storia di comportamenti orribili, ad esempio in Irlanda, tende a provare istintiva simpatia per la “perfida Albione” che aderì, sia pure con esitazioni e ritardi, alle sanzioni contro l’aggressione all’Etiopia dell’assai peracottaro, ma non meno crudele, colonialismo italiano. Sicuramente guardavano alla Gran Bretagna con speranza molti antifascisti che, negli anni ‘35-‘37, avevano sempre più difficoltà a rapportarsi con la palude del massimo consenso popolare al regime.
E’ ora all’Europa, all’Europa incerta di sé e sempre pronta a fare un passo indietro, che nonostante tutto guardano con speranza gli israeliani democratici, che vedono con lucidità dove sta portando la dominazione – preterintenzionale o meno – su un altro popolo, dominazione di cui sono ancore le colonie nei Territori Occupati. Ma mentre gli appelli all’Europa dei grandi scrittori sono accessibili a tutti, ovvero a chiunque non si voglia limitare alle sole ‘informazioni corrette’, il ruolo dell’Europa in aiuto alla comunità scientifica israeliana è meno noto ai non addetti ai lavori.
Nel luglio 2013 la commissione europea ha adottato delle linee guida, partorite dopo una lunga gestazione che ha coinvolto i suoi esperti in Israele, le quali vietano l’erogazione di finanziamenti europei ad entità scientifiche o industriali che operino nei Territori. Il principio è che l’erogazione di un finanziamento comporterebbe il riconoscimento implicito dell’Occupazione; ed inoltre, a parte il principio, non si vuole forzare la maggioranza dei contribuenti europei, che sarebbe contraria, a sostenerla indirettamente. Gli effetti pratici sono stati tuttavia assai limitati. Fra le entità industriali, quasi nessuna ha un interesse commerciale a dichiarare apertamente di operare nei territori, né la commissione europea ha messo su una rete di informatori per appurarlo; per cui rimangono fra gli esclusi solo la fabbrica di creme del Mar Morto, Ahava, qualche azienda vinicola del Golan e poco altro (né il Golan né le pendici del Mar Morto, del resto, sono veramente abitati da palestinesi). E’ stata solo la prospettiva di dover etichettare i propri prodotti per il ricco mercato europeo come provenienti dai Territori che pare abbia indotto Ahava, più recentemente, ad annunciare un prossimo spostamento della propria attività. Fra gli enti di ricerca scientifica, invece, la questione si limita essenzialmente all’università di Ariel, nella Cisgiordania occupata. Ma cos’è l’università di Ariel?
Ariel è una cittadina di circa ventimila abitanti edificata a partire dal 1978 in Cisgiordania, o Samaria che dir si voglia, su terre confiscate per uso militare ai proprietari palestinesi. Il suo status di insediamento su territorio soggetto a occupazione è chiaro agli occhi di gran parte del mondo, ma ambiguo per molti israeliani. Ariel è spesso percepita come un quasi-Israele, come una delle concentrazioni di popolazione ebraica che andrebbero tenute a tutti i costi, magari scambiandole con lembi di territorio israeliano non abitati da ebrei; mentre dal punto di vista legale la Corte Suprema Israeliana ha ribadito, proprio a proposito della sua università, che Ariel non è da considerarsi territorio israeliano. E’ su questa base che quando il College Accademico, originariamente stabilito ad Ariel fin dal 1982 come una delle succursali dell’università di Bar Ilan e poi resosi indipendente, ha chiesto di essere elevato al rango di università, il ministro Gideon Sa’ar ha trovato l’escamotage per far approvare il passaggio di categoria. Infatti tutte le vere università israeliane erano fermamente contrarie, e con loro il Consiglio per l’Istruzione Superiore, sorta di CUN israeliano, che ne è espressione, ma è formalmente presieduto dal ministro in carica, all’epoca appunto Sa’ar. Il ministro ha allora messo in piedi con l’amministrazione militare dei Territori un altro Consiglio per l’Istruzione Superiore, per la Giudea e la Samaria, espressione del movimento dei coloni ed in pratica costituito dalla sola aspirante-università di Ariel che ha così approvato, senza ulteriori sorprese, la propria auto-promozione.
I sostenitori dell’università di Ariel ribattono alle accuse affermando fra l’altro che gran parte degli studenti sono arabi. Nel 2011, erano 600 su circa 14000 studenti. Si dimenticano però di precisare che si tratta solo di arabi israeliani, la cui funzione è quella di sbiancare la macchia dell’occupazione. I palestinesi non possono entrare all’università di Ariel. Un’idea della scarsa rilevanza della neo-università sul piano accademico la si può trarre dalla pagina di Wikipedia, che per essendo redatta da favoreggiatori non trova grandi argomenti a supporto del suo nuovo status. Serve ricordare che in Israele ci sono decine di istituti di istruzione superiore con status di college e non di università, autorizzati a rilasciare altri titoli ma non il dottorato.
Dopo la pubblicazione delle linee guida dell’Unione Europea, il (precedente) governo Netanyahu ha minacciato di cancellare la partecipazione d’Israele al programma quadro Horizon 2020, il principale strumento di finanziamento europeo alla ricerca scientifica. La minaccia ha destato sconcerto e preoccupazione nella comunità scientifica israeliana, che aveva ottenuto dal precedente programma quadro finanziamenti per circa 100 milioni di Euro l’anno, molto di più del contributo versato da Israele. Anche il ministro della Scienza allora in carica, Ya’acov Peri, ex capo dello Shin Beth, si era schierato con gli scienziati, in contrasto col ministro degli Esteri Lieberman. L’Europa in quell’occasione ha tenuto duro, e alla fine di Novembre 2013 il governo israeliano ha accettato di partecipare al programma Horizon rispettando le regole europee, allegando per salvare la faccia una dichiarazione in cui ribadisce la propria contrarietà alle linee guida, dichiarazione senza alcuna conseguenza pratica. Da notare che restrizioni simili a quelle richieste dalle linee guida sono in vigore fin dal 1972 per i finanziamenti alla ricerca erogati dagli Stati Uniti, che anche non possono essere utilizzati oltre la Linea Verde.
Nelle scorse settimane ho spesso visto accumunati sotto il titolo ad effetto di “boicottaggio di Israele” sia le linee guida in materia di finanziamenti, che si riferiscono solo ai territori occupati, che la (per ora solo ventilata) etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie, che oltre a riferirsi solo ai territori non vieta di comprare tali prodotti, ma solo impone trasparenza nei confronti degli utenti, che anche, addirittura, il presunto mancato invito di relatori israeliani a conferenze internazionali. Premesso che solo un giornalista del tutto avulso dal mondo della ricerca può pensare che gli israeliani siano sottorappresentati agli incontri scientifici, non si vede come l’Unione Europea od i suoi stati membri potrebbero imporre agli organizzatori chi invitare ad un incontro e chi no. Ma al di là della non comprensione dei fatti, chi parla di boicottaggio non afferra il significato dell’appoggio che la stragrande maggioranza degli scienziati, europei e non, offre ai colleghi israeliani. Appoggio contro i tentativi di intimidazione del proprio governo, fattisi più pesanti ad ogni nuovo ministero Netanyahu; appoggio per una piena integrazione non solo degli scienziati senior, che lo sono già, ma anche degli studenti nello spazio europeo dell’università e della ricerca, ad esempio con la partecipazione ad Erasmus; appoggio per il dialogo con i colleghi dei paesi i cui governi sono ostili ad Israele, dialogo che è uno degli aspetti più attraenti del vivere la ricerca. Tre argomenti cui vale la pena dedicare spazio in futuro.
Sull’università di Ariel vista dalla comunità accademica israeliana, si può vedere
Sull’etichettatura dei prodotti, vedere
Alessandro Treves
Trieste e Tel Aviv