Il 31 ottobre scorso dovevano avere luogo in Israele le elezioni per i consigli municipali, un test politico importante nel paese segnato da mesi da un profondo scisma che attraversa e lacera la società, dopo l’insediarsi di un governo frutto di un’alleanza fra il Likud del premier Netanyahu e partiti religioso-fondamentalisti. Proteste massicce e persistenti da parte di vasti settori dell’opinione pubblica contro il degrado antidemocratico del paese e l’ondata di tribalismo intollerante, con modalità senza precedenti nella storia di Israele fino a forme di quasi “obiezione di coscienza” di reparti della riserva dell’esercito; azioni di disobbedienza civile che dimostrano la gravità della crisi e il pericolo acuto di una disintegrazione della società.
L’attacco terroristico di Hamas a Israele
Il 7 ottobre, terroristi di Hamas, sfruttando l’occasione delle provocazioni di estremisti ebrei, inclusi membri di partiti di governo che predicano l’espulsione dei palestinesi e le presunte minacce all’integrità della Spianata delle Moschee e di Al Aqsa – luogo sacro dell’Islam ma al contempo simbolo di una sovranità rivendicata – hanno perpetrato un efferato eccidio di massa sul territorio di Israele. Hanno colpito e devastato edifici, strade, infrastrutture nelle regioni del sud e del centro del Paese, ucciso e ferito civili, rapito ostaggi: un’esibizione barbara di forza nel reagire contro il nemico Israele mentre l’Autorità palestinese e il Fatah, nella retorica fondamentalista di Hamas, restavano inani ed inerti.
Due i vincitori nel breve periodo in questa “faida barbarica” – come la definì anni fa Avishai Margalit, un insigne filosofo israeliano – che attanaglia i due popoli, due vincitori stretti da una malefica, oggettiva alleanza: Hamas, che trionfa nelle simpatie dei palestinesi e nella retorica del mondo musulmano; Benjamin Netanyahu che, premier di un governo fortemente osteggiato da strati corposi dell’opinione pubblica, resta il leader di una “union sacrée” contro il nemico irriducibile. Da allora una guerra devastante è in corso fra Israele e i miliziani di Hamas sul territorio della Striscia di Gaza.
È un regresso profondo dalla filosofia degli accordi Oslo, di cui ricorrono i 30 anni, il cui presupposto era il riconoscimento reciproco dei diritti: quello degli israeliani alla pace e alla sicurezza come specchio di quello dei palestinesi a uno Stato degno di questo nome. Da un lato, è vano affidarsi per Israele alla mera repressione militare della violenza senza offrire un negoziato di pace, anzi esaltando la volontà di costruire nuove case nelle colonie in Cisgiordania, legalizzando retroattivamente altri insediamenti illegali e tollerando con indulgenza le ripetute violenze squadristiche dei coloni stessi contro località palestinesi e i loro abitanti che li spingono ad abbandonare loro terreni e fonti di sostentamento. Dall’altro, l’illusione di Hamas di piegare Israele con la violenza, riscattando l’impotenza dell’Autorità palestinese indebolita nei suoi apparati e fortemente delegittimata nella sua stessa opinione pubblica, resta un’ossessione sciagurata di quel movimento integralista.
Il partito arabo-ebraico Kol Ezracheya alle elezioni municipali
Un piccolo ma significativo spiraglio di luce viene dalla formazione alcuni mesi or sono di un partito arabo-ebraico su base paritaria, chiamato Kol Ezracheya (Tutti i cittadini). Nel suo manifesto fondativo esso afferma: “noi offriamo un’alternativa reale e radicalmente innovativa. Proponiamo una partnership politica sostanziale e profonda tra ebrei e arabi, di tutti i generi, su basi civiche, costituzionali ed egualitarie. Insieme, ebrei e arabi, uomini e donne, costituiamo una rappresentanza politica unica, che rispecchi la piena collaborazione tra i componenti delle due comunità nazionali di Israele”. L’impulso che anima il partito è quello di un’azione di lungo periodo, politica e culturale, che trasformi la psicologia dominante nel paese dal nazionalismo “etnico” di un Israele “Stato degli ebrei” ad uno “Stato degli israeliani”, con un’identità civile ed egualitaria.
Candidati del nuovo partito corrono nelle elezioni municipali rinviate al 27 febbraio in sei città, piccole e grandi del paese, ma è Gerusalemme l’epicentro della novità. Gerusalemme dove su circa 1 milione di residenti 400.000 sono arabi di cui circa 340.000 con permesso di residenza temporanea nella città e 60.000 cittadini israeliani. Essi, mai rappresentati con alcun seggio nel consiglio municipale, corrono in queste elezioni con diversi candidati ebrei capeggiati da Sundus El Khot, una giovane educatrice palestinese di 33 anni, insegnante di lingua araba in scuole ebraiche e nell’amministrazione pubblica della città.
Una novità significativa dunque per i palestinesi di Gerusalemme est indifesi, oppressi e senza voce. Non vi è pianificazione edilizia in quei quartieri e quindi quasi tutte le case palestinesi di nuova costruzione sono designate come illegali e soggette alla demolizione. Procedono atti di espropriazione di terreni palestinesi e di successiva costruzione di nuovi quartieri ebraici da Silwan, Ras al Amoud, Walaja e in altre parti della città. Il boicottaggio delle elezioni municipali, predicato da sempre dall’OLP e poi dall’Autorità palestinese, come atto di protesta contro l’annessione della parte orientale della città dopo la guerra del 1967 e le successive modifiche del suo status, è stata una pratica autodistruttiva; certamente non ha concorso in alcun modo a difendere i diritti dei palestinesi a Gerusalemme.