Yitzhak Rabin, 30 anni fa. Il suo lascito e l’ombra del Sionismo religioso

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L’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 mise a nudo l’estremismo interno israeliano e le tensioni contro la pace con i palestinesi. Rabin ribadiva che «la pace non è l’impresa di una persona sola, ma di molti», sottolineando dialogo e cooperazione. Oggi, il Sionismo religioso e i movimenti dei coloni continuano a influenzare politica e società israeliana, ostacolando ogni compromesso territoriale. 

L’assassinio di Yitzhak Rabin, Primo ministro di Israele, nel novembre 1995 fu un trauma enorme nella coscienza di sé del Paese: disvelò un substrato di fanatismo e di predicazione della violenza contro gli accordi di pace di Oslo firmati due anni prima dal governo di Israele e dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Le radici di quell’azione omicida erano in una perversione integralista dell’Ebraismo che faceva dei luoghi sacri e delle tombe degli avi oggetti di culto e negava il principio della spartizione di quella terra fra due popoli attanagliati in un funesto conflitto da oltre un secolo.

In quei giorni nefasti Israele e gli ebrei del mondo scoprirono che l’integralismo – sottovalutato, coperto, anche dopo la strage di musulmani in preghiera nella moschea di Hebron nel 1994 da parte di un estremista ebreo americano – non era un misfatto virulento dell’ ideologia islamista, ma corrompeva anche una parte del mondo ebraico fino al punto di arrogarsi, come in una missione trascendente, il diritto-dovere di uccidere nel nome di Dio.

La violenza delle manifestazioni di piazza contro gli Accordi di Oslo nel corso del 1995, l’incitamento all’odio e all’omicidio, le stesse immagini di Netanyahu, allora fra i leader dell’opposizione, che arringava la folla urlante in una piazza di Gerusalemme, restano vivide memorie in modo anche visivamente pregnante nei film documentaristici di Michael Karpin, Amos Gitai e Yaron Zilberman.

L’ideologia del Sionismo religioso, minoritaria agli inizi dell’immigrazione ebraica in Palestina e dell’esistenza di Israele fino agli anni Settanta, divenne importante, con un’impronta via via più radical-nazionalista, sull’onda dell’euforia della vittoria nella guerra del ’67 e della conquista dei luoghi sacri dell’ebraismo quali la città vecchia di Gerusalemme e Hebron. Essa ha offerto ai coloni che via via si insediarono nella Cisgiordania occupata, sollecitati in ciò e protetti dai governi succedutisi al potere nel Paese, il fondamento teologico della loro azione.

Combinando nazionalismo militante e integralismo religioso, quell’ideologia predica l’integrità e sacralità della Terra di Israele biblica, promessa da Dio agli ebrei e riservata al loro possesso esclusivo. Su questo credo il Sionismo religioso fonda anche oggi nelle sue espressioni più militanti, sia nel movimento dei coloni che nell’azione di due partiti oltranzisti membri della coalizione di governo, la sua opposizione ad ogni compromesso politico con i palestinesi che comporti la spartizione di quella piccola terra contesa fra due popoli e la coesistenza di due Stati sovrani, Israele e Palestina.

Dal punto di vista politico-sociale, l’influenza che quell’ideologia e i movimenti che ad essa si ispirano esercitano sulla società e le sue istituzioni è oggi imponente. Mentre gli “ultraortodossi”, pur in numero crescente per l’elevato tasso di fertilità – circa il 15 per cento degli ebrei israeliani e il 12 della popolazione complessiva del Paese – sono distanti dalle istituzioni del Paese, in larga parte poveri e socialmente marginali, i “nazional-religiosi” (così sono detti i sionisti religiosi nel linguaggio corrente) sono pienamente integrati nel sistema di potere del Paese: nel Parlamento e nel governo, nonché in posizioni eminenti nell’esercito.

Come lo scrittore Amos Oz profeticamente asseriva già nel 1983, «dal punto di vista ebraico quella dei coloni è una concezione integralista, semplicistica e monomane: una concezione che tende a ridurre l’Ebraismo a religione soltanto, a ridurre la religione a culto e il culto a un unico oggetto: l’intera terra di Israele. Per me, il basare l’Ebraismo su un solo aspetto significa retrocedere di molti passi» (Amos Oz, In terra di Israele, Marietti, 1992).

Figli e nipoti di quell’ideologia popolano gli insediamenti più militanti in Cisgiordania, si oppongono in forme anche violente allo sgombero di insediamenti edificati su terreni di proprietà privata di palestinesi, fino a reagire alle decisioni in tal senso della Corte suprema con spedizioni punitive contro i loro vicini palestinesi, estirpando ulivi, incendiando le loro case o profanando moschee. Alcuni movimenti fanatizzati (Tag mechir e i Giovani delle colline) giungono a predicare il rovesciamento del governo legittimo e l’instaurazione di uno Stato fondamentalista retto dalla legge religiosa ebraica.

Gli stessi servizi di sicurezza israeliani hanno esitato a lungo prima di risolversi a trattare la patologia maligna dell’estremismo ebraico come un pericolo per lo Stato di diritto e la democrazia in Israele, alla stessa stregua del terrorismo di matrice palestinese. Tale pratica sciagurata si è fatta più intensa e violenta dopo l’eccidio di civili israeliani perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, spesso in condizioni di impunità rispetto alla stessa legge israeliana cui i coloni abitanti nella Area C della Cisgiordania sono soggetti. L’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania; la confisca di terre possedute da soggetti privati palestinesi anche nell’Area B che gli accordi di Oslo affidano alla giurisdizione civile della Anp; la demolizione di case e infrastrutture che li privano di luoghi di abitazione e fonti di sostentamento fino a forzarli a un abbandono delle proprie terre; la stessa trasformazione in atto con il governo di destra al potere dal 2022 del regime di occupazione da militare a “semi civile”, con israeliani e palestinesi soggetti a sistemi di legge separati e diseguali rendono la nascita di uno Stato palestinese che abbia contiguità territoriale, autosufficienza economica ed effettiva sovranità via via più difficile. I palestinesi sono impotenti, divisi fisicamente fra Cisgiordania e Gaza, fra il moderatismo della Anp e del suo presidente Abu Mazen e l’estremismo islamista di Hamas. Nella Cisgiordania sono “non-cittadini” del “non-Stato” in cui vivono (le aree A e B in cui la Anp esercita la sua limitata giurisdizione) dove dal 2006 non esercitano il diritto di voto per il continuo rinvio delle elezioni per il Parlamento e il Presidente palestinese, né possono votare e quindi influire sull’operare di quello stato, Israele, che di fatto controlla la loro quotidiana esistenza.

Nonostante le ambiguità e la naturale tentazione al procrastinare, dovrebbe essere chiaro che di tre cose – Israele come Stato-nazione del popolo ebraico, Israele come democrazia, l’annessione di fatto della Cisgiordania – due sole si possono conseguire. O Israele rinuncia ai territori, sgomberando le colonie e negoziando uno scambio di territori con il futuro Stato di Palestina per quanto riguarda gli insediamenti più densamente popolati e prossimi alla Linea verde (il confine orientale di Israele pre-1967) e conserva quindi la sua identità di Stato “ebraico e democratico”, di Stato, cioè, in cui gli ebrei sono maggioritari ma gli arabi godono della pienezza di diritti propri di una minoranza nazionale. Oppure, perpetuando l’occupazione dei territori, dà luogo a uno Stato binazionale, in cui gli ebrei saranno minoritari in virtù della demografia, sacrificando quindi le fondamenta ideali e pratiche del sionismo. Oppure, infine, annettendo i territori ma privando i palestinesi che vi risiedono di diritti civili e politici, conserva l’ebraicità dello Stato, in un senso rozzamente etnico, ma in un regime di segregazione ed esclusione degli abitanti arabi che sarà bandito dalla comunità internazionale e segnato dalla guerra civile al suo interno.

Rabin comprese i limiti della forza militare e l’esigenza irrinunciabile di un compromesso per giungere alla pace con i vicini palestinesi e gli Stati arabi. Comprese appieno il legame fra sicurezza strategica per il suo Paese e una condizione di pace e buon vicinato. Comprese che è vano e autodistruttivo dominare e domare un altro popolo, cui sono negati i diritti nazionali e la legittima ambizione all’indipendenza. La filosofia ispiratrice degli Accordi di Oslo del 1993 nasceva proprio dal riconoscere che il diritto degli israeliani alla pace, a un’esistenza finalmente legittima e sicura nel Medio Oriente, non poteva prescindere da quello dei palestinesi a uno Stato indipendente degno di questo nome.

Concludo con un ricordo quasi personale riprendendo quanto Rabin scrisse al Gruppo Martin Buber-Ebrei per la pace – un’associazione di ebrei italiani attiva dalla fine degli anni Ottanta in difesa della soluzione “a due Stati” del conflitto israelo-palestinese – nel gennaio 1995 in risposta agli auguri che gli porgevamo per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace: «La pace non è l’impresa di una persona sola, ma di molti. Lo sforzo di realizzare il sogno di vivere in pace è il nostro lascito ai nostri figli, palestinesi e israeliani… Sono fiducioso che attraverso il dialogo e la cooperazione i nostri due popoli supereranno gli ostacoli posti da coloro che si oppongono alla coesistenza e che potremo conseguire gli ideali del Premio Nobel».

 

Giorgio Gomel

fonte Confronti 5 novembre 2025

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