David Calef, JCall, su quale sia l’obiettivo di Israele

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COME DICEVA ANCHE BARACK…
Il tentativo, da parte di JCall, movimento di ebrei europei nato nel 2010 per dar voce a chi pensa che sostenere Israele significa anche criticare il suo governo, di guardare a ciò che sta succedendo tenendo conto della genesi di questo conflitto; l’ostinazione nell’espandere le colonie nei Territori occupati, scelta antitetica alla dichiarata volontà di pace; gli ebrei europei, soprattutto francesi, che non sentendosi più sicuri decidono di emigrare in Israele. Intervista a David Calef.
David Calef è coordinatore nazionale di JCall-Italia (European Jewish Call for Reason) ed esperto di emergen-ze umanitarie e sicurezza alimentare presso la divisione di Emergenza e Riabilitazione della Fao.
In Israele e Palestina la situazione è di nuovo precipitata. Tu sei impegnato in Jcall, il movimento d’opinione di ebrei europei nato nel 2010 sulla base di un “appello alla ragione”. Puoi intanto raccontare qual è la vostra posizione?
Jcall è nato nel 2010 con una presentazione formale al Parlamento di Bruxelles. All’origine dell’iniziativa c’è un incontro tenutosi a Parigi in una biblioteca di letteratura Yiddish, nel dicem-bre del 2009, in cui David Chemla, all’epoca uno dei leader di “La paix maintenant” (la pace adesso), aveva invitato alcune persone da vari angoli dell’Europa per costituire, appunto, un’associazione, ebraica nella maggioranza dei membri, di persone legate a Israele perché ci sono nate, ci vivono, hanno il passaporto, o anche per ragioni culturali, ideali, preoccupate per il destino del sogno sionista. Un’associazione che, pur dichiarando esplicitamente il proprio legame con Israele, si dichiarava libera di criticare le politiche del go-verno israeliano, soprattutto riguardo la questione palestinese.
L’idea partiva dalla presa d’atto che, in Europa, la maggior parte delle associazioni ebraiche nazionali, l’Ucei in Italia, il Crif in Francia, eccetera, sono esplicitamente schierate “senza se e senza ma” con il governo israeliano, senza mai interrogarsi se le politiche adottate appoggino veramente gli interessi di un paese de-mocratico a maggioranza ebraica. E qui si entra subito nel merito delle questioni, perché Israele, stato de-mocratico e pluralista, fuori dai confini del ’67 può dirsi tale solo per gli abitanti degli insediamenti, non cer-to per i palestinesi che si trovano o parzialmente o totalmente sotto controllo israeliano e che, ad esempio, per andare a trovare il cugino, devono chiedere il permesso, fatto che chiunque viva in Occidente considera un’aberrazione e una prevaricazione da parte di Israele.
Purtroppo, non solo le istituzioni ebraiche sono schierate con Israele senza esitazione, ma anche la maggio-ranza degli ebrei europei ha questa inclinazione. Noi, molto semplicemente, nutriamo il dubbio che questo non sia il modo migliore per appoggiare Israele. Questa è la ratio che spiega la nascita di quello che voleva-mo essere: un movimento europeo in grado di andare oltre le realtà nazionali.
È stato così stilato un “appello alla ragione” in cui dichiariamo di essere per due popoli, due stati, ma de-nunciamo anche come da Netanyahu a Naftali a Bennett, a Liebermann, a Uri Ariel, il governo sia esplicita-mente contrario alla creazione di uno stato palestinese al proprio fianco. Perché comunque noi parliamo di uno Stato palestinese vero, sostenibile, “viable”, come si dice in inglese, e non un’entità frammentata in uno spezzatino. All’indomani del nostro appello c’è stata subito una contro-reazione in Francia e successiva-mente anche in Italia. L’appello francese, sottoscritto anche da molti italiani, facendo un po’ il verso all’ap-pello alla ragione di JCall, si intitola “Reason Garder”, conservare la ragione. Non ho detto che JCall a sua volta riecheggia il movimento nato nel 2009 negli Stati Uniti con il nome di JStreet. Negli Stati Uniti c’è un contesto diverso: gli ebrei europei tendono ad essere di centro e conservatori; gli ebrei americani tendono ad essere, invece, liberal e di sinistra. Non solo, l’antisemitismo è un fenomeno assolutamente marginale e anzi c’è un sincero filosemitismo, nel senso che la gente pensa che essere associati agli ebrei, all’ebraismo sia una cosa cool. Purtroppo non è così in Europa, dove le pulsioni antisemite stanno invece riemergendo, ma questo è un altro discorso.
Comunque, per concludere, JCall è nato con l’obiettivo di far sentire una voce ebraica diversa e di promuo-vere un dialogo nelle comunità ebraiche europee; un dialogo all’interno del quale sia possibile, ad esempio, avanzare il dubbio che la costruzione di insediamenti non sia la via migliore per creare uno stato palestine-se. Sempre che sia quello l’obiettivo.
L’8 luglio, a Tel Aviv, c’è stata una conferenza organizzata da “Haaretz”, quotidiano israeliano con posizioni molto simili alle nostre; erano presenti esponenti politici e della società civile; c’erano il partito laburista, il Meretz, ma anche Naftali Bennett, persone con visioni molto differenti rispetto al conflitto e alla sua solu-zione. A rappresentare JCall era stato invitato Alain Finkielkraut, filosofo francese. Ecco, la sua posizione è che la creazione di uno Stato palestinese dovrebbe essere un obiettivo di Israele per il suo stesso bene, ol-tre che per un impulso morale per le condizioni di vita dei palestinesi.
Parliamo della situazione. In un mese c’è stato un precipitare degli eventi e per molti osservatori Israele è uscita perdente da questo conflitto.
Le immagini di Gaza parlano da sole. Il numero di morti è inaccettabile, tanto più che la maggior parte sono civili e per di più bambini e ragazzi; a Gaza infatti un buon cinquanta per cento della popolazione ha meno di diciott’anni. E poi ci sono le morti dei civili israeliani, i primi giorni, e in seguito delle decine di soldati israeliani.
L’indignazione dell’opinione pubblica occidentale, da un lato, è emotivamente condivisibile, perché si vede una parte molto più potente. Ma ovviamente non è la potenza di fuoco a determinare la moralità dell’azio-ne; gli americani, per fortuna, erano più forti e più efficaci dei tedeschi e dei giapponesi.
Ciò per cui bisogna veramente indignarsi è il senso, la necessità di queste morti.
Nell’ambito dei negoziati tra Netanyahu, con il suo gabinetto di ministri, e Abu Mazen, con i suoi consiglieri, che sono iniziati nel 2013 con l’intermediazione di Kerry e che si sono arenati nella primavera del 2014, i rappresentanti palestinesi avevano accettato di interrompere il processo di riconoscimento dello Stato in cambio della liberazione (in quattro tranche) di mille prigionieri. Ora, ciò che ai miei occhi rende veramente poco credibile la posizione di Israele è che in questo scambio è entrata anche la richiesta di costruire altri duemila insediamenti. Non è credibile! Se io fossi un palestinese penserei: “Ma scusa, non avevamo detto che l’obiettivo finale è quello di uno Stato?! A che pro altri insediamenti?”.
D’altra parte, lo stesso Uri Ariel, ministro degli alloggi, è stato chiaro in proposito: “Noi continueremo a co-struire insediamenti”. E comunque Netanyahu, in luglio a una conferenza stampa, ha detto testualmente (il virgolettato è stato pubblicato sulla rivista “Times of Israel” di David Horovitz): “Io penso che gli israeliani capiscano quello che ho sempre detto, non può esserci una separazione sotto alcun accordo in cui noi ri-nunceremo al controllo di sicurezza del territorio a ovest del fiume Giordano”. Il che significa che uno Stato palestinese rimarrebbe comunque sotto il controllo israeliano.
Durante il suo discorso alla conferenza dell’8 luglio, Bennet è stato ancora più esplicito quando ha detto, almeno un paio di volte: “Ha-shetah ken kovea”, ovvero, “Il territorio conta veramente”, proprio per sottoli-neare che, secondo lui, l’area compresa tra la Linea Verde e il Giordano non può essere restituita ai palesti-nesi. E poi ha chiesto, retoricamente, al pubblico: “Ma voi preferite combattere una battaglia con Isis sulle rive del fiume Giordano o sull’autostrada numero 6?”.
Un argomento che chiaramente colpisce la pancia dell’israeliano. Io francamente non lo trovo così convin-cente. Mi sembra che i fatti dimostrino che deprivare i palestinesi non li fa diventare dei cittadini moderati, finlandesi, che rispettano i veti e non prendono la fionda o i razzi Kassam. È esattamente il contrario. Infatti, a nostro avviso è una grave responsabilità di Israele quella di non aver concesso nulla ai moderati, indebo-lendoli. Ora con Hamas rispondono colpo su colpo, ma intanto sono cresciute cellule jihadiste islamiche, al cui confronto quelli di Hamas sono boy-scout.
Comunque, è chiaro che Naftali Bennet non ha alcuna intenzione di ridare indietro i territori, ed è un politi-co in ascesa. Netanyahu è stato meno preciso, ma ha detto la stessa cosa: i territori non glieli diamo indie-tro, rimarranno sotto controllo nostro, quindi, lo stato palestinese, se ci sarà, non sarà uno stato che si reg-ge sulle proprie gambe.
Questo è importante perché, davanti al conflitto, la reazione standard è: “Ma Israele cosa deve fare?”. In America, per esempio, la mettono così: “Ma se a Ottawa e a Montreal arrivano i missili, gli Stati Uniti se ne stanno comodi a godersi l’estate o rispondono?”. E uno dice: “Sì, è ovvio che rispondono”. E in parte è vero: bisogna rispondere. Questo ragionamento però non tiene conto della genesi di questo conflitto.
A giugno c’è stato il rapimento dei tre ragazzi, Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, compiuto da pale-stinesi nella West Bank. Netanyahu, prima ancora di avere le prove, ha detto: “Hamas pagherà per questo crimine”. Ora sembra che il governo israeliano, già dal secondo giorno, sapesse che erano morti. Nell’inter-vallo di tempo fra il rapimento e il ritrovamento dei corpi, Israele ne ha approfittato per fare una serie di retate nella Cisgiordania; in realtà pare che la responsabilità sia da ascriversi soprattutto a una famiglia di Hebron il cui curriculum storico è quello di creare incidenti ogni volta che Hamas fa dei passi negoziali.
Infatti ad aprile c’era stato un riavvicinamento tra Fatah e Hamas.
È curioso: chi difende Israele senza se e senza ma ha interpretato quel passaggio in modo negativo: “Vede-te, abbiamo ragione noi, tutti i palestinesi sono come Hamas”. Senza nemmeno prendere in considerazione l’opzione contraria, e cioè che fosse Hamas a rendersi disponibile. Intendiamoci, Hamas continua ad avere uno statuto con dichiarazioni anti-semite, anti-sioniste e omicide e tuttavia il viceministro degli affari esteri di Hamas, Ghazi Hamad, ha dichiarato alla radio americana: “Noi siamo pronti a riconoscere la soluzione due popoli-due stati secondo i confini del ’67”. Chiedo: Israele è andato a verificare se questa ipotesi era percorribile o no? A me non risulta che Israele abbia mai afferrato l’occasione per vedere se c’era un margi-ne di trattativa anche con alcuni elementi di Hamas.
Dopo il rapimento dei tre ragazzi, Israele ha arrestato i palestinesi vicini ad Hamas. A quel punto la leader-ship di Hamas a Gaza si è resa irreperibile. E cos’è successo? Una cosa non del tutto sorprendente: le frange estreme, le varie cellule jihadiste, hanno cominciato a sparare razzi nel territorio israeliano e Israele a rispondere.
È vero, per molti a questo punto Hamas ha conseguito una vittoria politica, nel senso che tutto il mondo si è schierato contro una potenza che colpisce ospedali e scuole e che comunque non ha mai dato segno di es-sere pronta a fare dei compromessi veri. Se, negli anni, Israele avesse mostrato di essere pronta a negozia-re, almeno coi moderati, le cose sarebbero state diverse. Israele, al contrario, ha reso la leadership di Abu Mazen molto debole perché non gli ha concesso nulla da poter vantare con i propri concittadini; anzi, l’uni-ca cosa che i suoi concittadini vedono è il progressivo aumento delle espropriazioni e degli insediamenti. Questo per dire che la responsabilità del conflitto dipende un po’ dal momento in cui si scatta la foto, però bisognerebbe vedere tutto il film. E il film dice che un’organizzazione terroristica, che ha in spregio le vite degli esseri umani, siano ebrei israeliani o anche palestinesi, sta sparando dei razzi. Il film però dice anche che Israele non permette a un milione e settecentomila persone di fare quello che io, tu e tutti quanti in Europa, in tutto il mondo, facciamo, cioè andare a trovare il proprio cugino a Ramallah. Sorvolare su questo punto e sul fatto che Gaza sia una grandissima prigione a cielo aperto significa omettere una parte importante.
Così Israele rafforza Hamas e gruppi ancora più estremisti, invece di facilitare gli elementi moderati che esi-stono anche a Gaza e che mi pare si siano un po’ stancati di agire sotto il controllo di Hamas.
Nelle immagini passate alla tv ha colpito anche la sproporzione nelle condizioni materiali di vita fra palestinesi e israeliani.
Si potrebbe obiettare che Hamas riceve molti aiuti dai paesi arabi e dai paesi europei. Come li usa? Quei tunnel costano un sacco di soldi; parliamo di tunnel a venti metri di profondità, costruiti in cemento armato… In fondo Hamas ha deciso di usare risorse che potevano essere destinate a infrastrutture civili nell’alle-stimento di strumenti di guerra e di aggressione. Questo per dire che quella povertà va in parte addebitata a una leadership tutt’altro che lungimirante.
Dall’altra parte, abbiamo una popolazione che vede i razzi e i tunnel e si sente in pericolo (contro i razzi, per fortuna, c’è l’Iron Dome, lo scudo antimissile, ma contro i tunnel? Sapere che c’è questo rischio di essere rapiti e portati a Gaza…). E poi c’è ancora il trauma della seconda intifada, con le discoteche e i bar che esplodevano. Tutto questo non giustifica l’esercizio del controllo su un’altra popolazione, ma certo spiega perché la maggior parte della popolazione israeliana oggi appoggia la guerra e non ha alcuna fiducia nei confronti della controparte palestinese. Detto questo, l’episodio dell’uccisione di Mohammad Abu Khdeir, il ragazzino palestinese bruciato vivo all’indomani del rapimento dei tre israeliani, dovrebbe anch’esso dar da pensare agli israeliani e a chi ha un legame con Israele. È questo l’Israele che vogliamo, un paese percorso da pulsioni razziste?
Jeff Halper, del Comitato contro la demolizione delle case palestinesi, non si stanca di ripetere che il cuo-re del problema sta in quella triade: terra, democrazia e carattere ebraico. Israele deve scegliere, non può essere uno stato ebraico e democratico e al contempo rivendicare l’intero territorio. A qualcosa deve rinunciare. Siamo sempre lì?
Il fatto è che tutti i governi israeliani, a partire dal ’67, hanno pensato il contrario: “Possiamo essere demo-cratici, ebrei e avere tutta la terra”.
Rabin, prima che lo assassinassero, ci aveva pensato. Anche Sharon, in fondo, nel ritirarsi da Gaza, seppure in modo sbagliatissimo, aveva fatto un passo in questa direzione. E qui non si può non dire che, una volta avuta la leadership, Hamas avrebbe dovuto giocare molto meglio le sue carte, proprio per il benessere dei palestinesi. Infatti, oggi Gaza è l’argomento principe per dire: “Vedete cos’è successo quando ci siamo ritirati? Non vogliamo che succeda la stessa cosa nella Cisgiordania”.
Mi sembra che questo ragionamento, pur non totalmente senza fondamenti, non riconosca però che c’è una gradazione di moderazione e di estremismo nella popolazione palestinese, come d’altra parte in quella israeliana, e io resto convinto che la maggioranza sarebbe disposta a negoziare.
Quindi c’è una grande responsabilità di tutti i primi ministri israeliani, con l’eccezione di Rabin, forse Sharon e Olmert, nel non aver voluto mettere in piedi un’iniziativa che conducesse a un negoziato che portasse a rinunciare a uno di quei tre elementi, sperabilmente la terra. E comunque, se anche pensiamo che non sia la maggioranza, la domanda è: noi vogliamo che la quota di chi è disposto al compromesso aumenti o no? Israele, nei fatti, tratta tutti i palestinesi, che siano a Gaza o in Cisgiordania, come un blocco unico che ha la stessa attitudine nei confronti degli israeliani, facendo così realizzare la profezia che sono tutti ostili a Israele.
L’ostilità è innegabile, ma l’irriducibilità e l’irreversibilità non sono affatto scontate. Un palestinese può es-sere ostile perché è antisemita o perché gli hanno espropriato la casa, decimato la famiglia e l’hanno ridotto in un campo profughi. Come diceva anche Ehud Barack: “Se io fossi un abitante di Gaza, sarei un terrorista”.
Si legge che aumentano gli ebrei che lasciano l’Europa alla volta di Israele perché qui si sentono meno sicuri…
Si sa che gli ebrei francesi emigrano e continuano a emigrare, con flussi sempre maggiori negli ultimi anni,
in Israele, perché, evidentemente, preferiscono vivere in un paese a maggioranza ebraica (con tutti i rischi che questo comporta), che trovarsi nelle sicure strade di Parigi o di Marsiglia, dove vivono minoranze, per-lopiù di immigrati arabi, che sono molto ostili e che ricevono l’appoggio di alcune frange della popolazione francese.
Ora, ci sono vari modi di essere antisemiti, e tra questi c’è anche quello omicida. L’abbiamo visto a Tolosa nel 2012 e il 24 maggio di quest’anno a Bruxelles. Questi sono eventi traumatici per un ebreo. Che ci siano attacchi a luoghi di culto ebraici o semplicemente a simboli ebraici è innegabile. Ci sono stati episodi perfino in Germania, per non parlare di quello che sta succedendo in Ungheria.
Come se non bastasse, c’è chi, come accade sulle colonne del “Foglio”, si è messo a evocare il 1938. Questo è un insulto alla storia, alla memoria, alla Shoah! I governanti europei non hanno adottato alcuna legislazione antisemita e sono ben lungi dal farlo! Insomma, c’è una bella differenza! Dire che l’Europa è in preda a una rinascita dell’antisemitismo, come se fossimo nel ’38, è uno stravolgimento dei fatti, è una lettura total-mente distorta e bieca di quello che sta succedendo. Purtroppo è anche questa pessima stampa ad alimentare i flussi migratori.
Va poi detto che c’è gente che emigra anche per motivi che non hanno nulla a che fare con la sicurezza. Israele è un paese economicamente vitale e quindi uno studente universitario o post-universitario, che ab-bia fatto dei buoni studi, può essere attratto ad andare in Israele anche semplicemente perché in Francia o in Italia chi oggi ha meno di quarant’anni ha poche chance di fare un lavoro interessante e stimolante. Io stesso ho conosciuto diversi ebrei italiani tra i 24 e i 26 anni che vivono in Israele perché là hanno trovato delle opportunità che non avevano a Roma o Torino.
La situazione insomma è complicata. Anche nei social media è facile imbattersi in un’ostilità verso Israele che è totalmente sproporzionata. E tuttavia non posso che biasimare uno sfruttamento di queste manifestazioni di antisemitismo, che sono censurabili, condannabili, ripugnanti, per perpetuare questa immagine di un ebraismo sempre assediato, dell’ebreo come vittima, odiato da tutti, sempre e comunque. In psicologia si parla di “profezia che si autoavvera”. Ecco, bisogna stare attenti.
Anche recentemente il presidente della comunità ebraica di Roma ha rilasciato una dichiarazione ad “Haa-retz” facendo riferimento esplicito all’insicurezza dell’ebraismo italiano, che invece, per fortuna, nonostan-te le scritte antisemite o i vaneggiamenti di un Vattimo, non è affatto nella situazione di quello francese. Ovviamente conosco l’origine di questo sentimento di insicurezza, la Shoah si è consumata non chissà dove, ma a Roma, a Parigi, in Europa ed è finita come è finita, però mi sembra che evocare continuamente un’apocalisse sia un’operazione molto pericolosa.
Certo è terribile e molto triste sentir dire che gli ebrei lasciano l’Europa.
A spaventare è soprattutto la matrice musulmana, certe frange estremiste presenti nell’immigrazione nor-dafricana e centroafricana. Però che dopo duemila anni di cultura, di vita ebraica nella diaspora, che hanno prodotto una grande civiltà nelle scienze, nella letteratura, nella medicina, ci si senta dire: “No, bisogna stare tutti in Israele”…
Comunque, forse l’unico posto ancora esente da questi timori sono gli Stati Uniti, dove invece la comunità ebraica prospera ed è culturalmente molto vivace, soprattutto nei grandi centri urbani di Chicago, New York, Boston. Negli Stati Uniti non c’è questo sentimento di insicurezza che c’è in Europa.
Anche vedere le sinagoghe romane sempre presidiate dall’esercito fa pensare. Se uno va in una qualunque sinagoga americana nessuno ti chiede chi sei e se entra una persona scura di pelle non succede nulla, per-ché l’antisemitismo è episodico, marginale, c’è un fortissimo tabù. In Italia, come dimostra l’esempio di Vat-timo, questo tabù non c’è, d’altra parte questo è un paese dove uno può dire tutto quello che vuole tanto non ha importanza…
Resta il fatto che se aumenta il senso di insicurezza, questo porta con sé il timore che la diaspora non sia più il posto per gli ebrei. Io penso che questa sia una paura eccessiva. I problemi ci sono, ma possono esse-re affrontati, anche lavorando affinché Israele sia più disponibile al compromesso sulle linee guida che dice-vo. Purtroppo, in Europa non vedo nessuna vocazione in questo senso, vedo una comunità ebraica molto chiusa su se stessa.
Invece, dalla lettura di quotidiani e riviste, sembra che negli Stati Uniti la situazione stia cambiando.
Negli ultimi tempi in effetti gli ebrei americani stanno mostrando di sentirsi più liberi di criticare Israele di quanto non facciano gli ebrei europei. Per esempio, diversi intellettuali ebrei d’oltreoceano, dal forte e an-che fortissimo legame con Israele, sono sempre più a disagio e pessimisti riguardo al futuro di Israele. Nelle ultime tre, quattro settimane, quando si è iniziato a vedere che in fondo la strategia di Israele sembrava più una coazione a ripetere qualcosa che abbiamo già visto con “Piombo fuso” e le operazioni successive, sono usciti interventi di giornalisti e intellettuali che francamente dieci anni fa non si leggevano. Penso all’edito-riale di Roger Cohen, pubblicato il 30 luglio sul “New York Times”, in cui confessa di far fatica, di non riuscire più a sostenere un sionismo che non crea nessuna speranza per i palestinesi.
Poi c’è l’articolo pubblicato sul “New York Magazine”, che è un giornale, per così dire, di letture amene, da parte di Jon Chait, che per molti anni ha scritto su “The New Republic”, un settimanale all’epoca “falco” in politica estera e sostenitore di Israele senza se e senza ma, con piccole eccezioni (ci ha scritto molte volte Michael Walzer). Ecco, Chait, uno che al primo congresso di Jstreet aveva lamentato che il movimento non era abbastanza pro-Israele, a distanza di pochi anni scrive un pezzo dal titolo: “Israele sta rendendo difficile essere filo-israeliani”. Il suo pezzo è stato echeggiato da Ezra Klein, l’ex giornalista del “Washington Post” che ora scrive sulla rivista online vox.com. Poi c’è Leon Wieselter, sempre su “The New Republic”, e potrei continuare con altri articoli comparsi su “The Forward”, “Slate”, per tacere della “New York Review of Books”. Tutte personalità ebraiche conosciute nel mondo dei media, lette da milioni di persone. Non è gen-te contraria alle bombe, che pensa siano un crimine contro l’umanità, tutt’altro! Dicono: “Noi, Hamas, se potessimo, lo avremmo distrutto, il problema è che non vediamo nulla dietro la strategia di Israele”. Ci sono state tre guerre in questi ultimi anni. Qual è l’obiettivo di Israele? Distruggere i tunnel di Hamas? Benissimo, purché nel farlo non metta in atto quella che rischia di rivelarsi la miglior strategia di reclutamento dei giovani palestinesi nelle cellule jihadiste. È questo che risulta loro incomprensibile e che li fa sentire molto me-no ottimisti di un tempo.
Alla fine posso dire che JCall-Italia condivide con questi giornalisti la convinzione che Hamas sia un nemico da combattere. Ma -e qui sta la differenza con l’opinione prevalente nell’ebraismo italiano- noi pensiamo che Israele in questo conflitto non abbia il monopolio della ragione. Soprattutto per tutto ciò che Israele non ha fatto prima che i razzi cominciassero a cadere sul suo territorio. L’ostinazione con cui il governo israeliano mantiene e anzi espande quotidianamente gli insediamenti contraddice e vanifica le sue dichiara-zioni ufficiali di volontà di pace. Anche cercando di capire le paure degli israeliani, ci sembra giusto mettere in luce questa contraddizione.
(a cura di Barbara Bertoncin)
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