La pandemia di Covid-19ha colpito anche il Medio Oriente. In quel piccolo lembo di terra contesa che va dal Mediterraneo al Giordano in cui convivono, avviluppati in un conflitto irrisolto e lacerante, circa 6,7 milioni di ebrei israeliani e un numero quasi identico di arabi palestinesi (1,8 milioni cittadini di Israele, 2,7 milioni in Cisgiordania, quasi 2 milioni nella striscia di Gaza) quella malefica patologia ne sottolinea la comunanza.
Fortemente distanti per reddito pro capite, grado di sviluppo civile ed economico, qualità dei sistemi sanitari, strutture di governance, il contagio li accomuna: secondo le statistiche disponibili a oggi, quasi 4000 casi in Israele, circa 100 nella Cisgiordania, appena 10 nella striscia di Gaza. Disparità così acute sono credibili ? Cosa lasciano presagire circa il futuro?
Misure eccezionali
In Israele, il lockdown di attività educative, culturali, economiche in senso lato è ormai operativo con misure stringenti simili a quelle introdotte in Italia e in altri paesi europei. Il governo uscente e che dall’aprile dell’anno scorso dopo tre tornate elettorali è in carica “per affari correnti” ha deciso di varare misure eccezionali che consentono alla polizia e al servizio di sicurezza di individuare tramite tecnologie digitalicontatti, movimenti e attività di pazienti infetti o sospetti, senza limiti di tempo e senza un dibattito in materia in Parlamento. Il Parlamento è stato chiuso per alcuni giorni per ordine del suo Presidente, uomo del partito di Netanyahu, poi dimessosi, invocando pretestuosi motivi di procedura e timori di trasmissione del virus.
La diffusione dell’infezione è stata particolarmente acuta nelle comunità ultraortodosse, dove famiglie numerose, povertà, condizioni abitative spesso anguste, unite al rifiuto opposto per qualche tempo alla decisione del governo di chiudere le sinagoghe e le yeshivoth (scuole religiose) hanno reso più facile e rapido il contagio. Anche nelle città del nord del paese dove più densa è la popolazione araba e nei villaggi del sud abitati da beduini, spesso non riconosciuti dallo stato e privi di strutture sanitarie, la comunicazione delle norme contro il contagio è stata tardiva e limitata e i pericoli di propagazione maggiori.
Il rischio in Cisgiordania e a Gaza
In Cisgiordania, il contagio è iniziato tramite turisti in pellegrinaggio a Betlemme. La maggior parte degli infetti sono abitanti palestinesi che quotidianamente superano i posti di blocco lungo la linea verde e lavorano in Israele (circa 60.000 soprattutto in attività agricole, costruzioni e servizi; altri 30.000 negli stessi insediamenti israeliani nella zona C della Cisgiordania). L’Autorità palestinese ha esortato questi operai a ritornare nelle loro case e sottoporsi a quarantena e ha intimato loro di non lavorare più in Israele, ma il dilemma doloroso che li affligge è fra il tutelare la salute propria e delle famiglie e il conservare il lavoro e il reddito essenziale che ne consegue, nella totale mancanza di protezioni sociali e sindacali. Il governo di Israele ha consentito ai loro datori di lavoro di ospitare almeno parte di tali operai la notte, evitando il transito da e per Israele lungo le strade e i posti di blocco: talora in case disabitate, spesso in locali di fortuna presso lo stesso luogo di lavoro dove mancano igiene e servizi decenti.
Le condizioni nella striscia di Gaza destano le preoccupazioni maggiori: densità demografica, scarsità di acqua potabile, penuria di energia, disoccupazione e povertà, un sistema sanitario fragile, il blocco sul transito di persone e materiali da Israele e dall’Egitto rendono le condizioni in loco molto difficili, potenzialmente catastrofiche. Gli ospedali mancano gravemente di dispositivi di protezione e di kit per i test su infetti e sospetti; secondo la stampa israeliana, Israele avrebbe consegnato alle autorità di Gaza appena 200 kit (1 per circa 10.000 abitanti).
La necessità di un’azione congiunta
Solo un’azione congiunta e sollecita da parte di Israele, dell’Autorità palestinese – peraltro ostile al regime di Hamas che governa Gaza – dell’Onu e dell’Oms può scongiurare una diffusione devastante dell’epidemia. A questo fine Israele, per le obbligazioni imposte dal diritto internazionale, dovrebbe consentire un transito sicuro da Israele stesso o dalla Cisgiordania, attraverso il passaggio sul territorio israeliano, da parte di organizzazioni internazionali e Ong che possano assistere gli abitanti della striscia.
La comunanza forzata imposta dall’epidemia potrà forse alterare in qualche misura la frattura che divide i due popoli. La violenza, i lutti, le sofferenze della propria gente tendono, infatti, a ottundere la sensibilità alle sofferenze degli altri; impediscono in molti israeliani la comprensione e compassione per i palestinesi, per i loro diritti negati di popolo. Dei palestinesi si vede solo la minaccia terroristica, il nemico ingrato e irriducibile. Un meccanismo analogo agisce fra questi ultimi: gli israeliani sono percepiti come occupanti, una straripante potenza bellica, e non una società complessa e sfaccettata.
Giogio Gomel
Fonte : Affarinternazionali