In quel piccolo lembo di terra contesa fra israeliani e palestinesi, tra il Mediterraneo e il Giordano, in cui convivono, avviluppati in un conflitto irrisolto, circa 7 milioni di ebrei israeliani e un numero quasi identico di arabi palestinesi (1,8 milioni cittadini di Israele, quasi 3 milioni in Cisgiordania, quasi 2 nella Striscia di Gaza), la pandemia di Covid-19 ha manifestato il suo potere malefico.
Fortemente distanti per reddito pro capite, grado di sviluppo civile ed economico, qualità dei sistemi sanitari, strutture di governance, l’infezione li accomuna: circa 500.000 contagi confermati – un numero molto elevato, circa 1,5 volte più dell’Italia nel rapporto con la popolazione -, con 3.800 decessi dallo scoppio dell’epidemia in Israele; circa 150.000 casi con 1.800 vittime nei Territori palestinesi, secondo le statistiche rilasciate da Worldometers.
La progressione delle infezioni
In Israele, la diffusione dell’infezione è stata particolarmente acuta nelle comunità ultraortodosse, dove vivono famiglie numerose, in condizioni abitative spesso anguste, e allergiche alle decisioni del governo di chiudere nei periodi di lockdown sinagoghe e scuole religiose. Anche nelle città del nord del Paese dov’è più densa la popolazione araba e nei villaggi del sud abitati da beduini, spesso non riconosciuti dallo Stato e privi di strutture sanitarie, la comunicazione delle norme contro il contagio è stata limitata e la propagazione dell’epidemia più facile.
In Cisgiordania, la maggior parte degli infetti sono abitanti palestinesi che quotidianamente superano i posti di blocco lungo la linea verde e lavorano in Israele. L’Autorità palestinese ha intimato a questi operai di non lavorare più in Israele, ma il dilemma è fra il tutelare la salute propria e delle famiglie e il conservare il lavoro e il reddito che ne consegue. Il governo di Israele consente ora l’ingresso nel Paese solo agli addetti ad attività essenziali, mentre per coloro che sono occupati in agricoltura o nei servizi ha invitato i datori di lavoro a ospitare tali operai la notte, evitando il transito da e per Israele lungo le strade e i posti di blocco: ciò avviene talora in case disabitate, o spesso in locali di fortuna presso lo stesso luogo di lavoro dove mancano igiene e servizi decenti.
Le condizioni nella striscia di Gaza sono peggiori per la densità demografica, la scarsità di acqua potabile, la penuria di energia, un sistema sanitario fragile, il blocco sul transito di persone e materiali da Israele e dall’Egitto.
Siero per tutti (gli israeliani)
Israele ha intrapreso sin dal 19 dicembre una campagna capillare ed efficiente di vaccinazione, acquisendo tempestivamente dosi di vaccino Pfizer-BioNtech e avvalendosi di un sistema sanitario in cui le casse mutua fondate nell’Israele socialisteggiante dei primi anni dello stato coprono per legge ogni israeliano e le schede mediche di ogni paziente sono digitalizzate.
Già a quasi 2 milioni di israeliani, su una popolazione complessiva di 9 milioni, è stata inoculata la prima dose; in questi giorni di gennaio si inizierà a somministrare la seconda. La campagna include i circa 350.000 abitanti palestinesi di Gerusalemme est, annessa, che godono di diritti di residenza in Israele e sono coperti dal suo sistema sanitario, pur non essendo cittadini dello stato.
Quanto ai palestinesi dei Territori, la questione della distribuzione del vaccino è assai seria. Secondo i protocolli conseguenti agli accordi di Oslo del 1993, la sanità compete alla Anp (Autorità palestinese); quindi, Israele può argomentare che non è legalmente suo dovere erogare il vaccino. Ma gli accordi contemplavano uno status di autonomia temporanea di cinque anni al quale sarebbe seguita un’intesa permanente.
Nei fatti, Israele ha violato i termini degli accordi di Oslo più volte nel tempo da allora intercorso e sotto diversi profili. L’Anp non è in alcun modo, a quasi trent’anni dagli accordi, uno stato sovrano. Nel caso specifico, non ha la capacità né la volontà di assicurare pienamente il vaccino in Cisgiordania o nella striscia di Gaza, la quale soggiace al potere assolutistico di Hamas.
Ong all’opera in Cisgiordania e a Gaza
Secondo dichiarazioni appena rilasciate dal ministero della Salute, la stessa Anp avrebbe concluso accordi con quattro imprese produttrici di vaccini, fra cui quello russo Sputnik V, con l’intento di coprire il 70% della popolazione in Cisgiordania, attraverso finanziamenti erogati dal Qatar e dagli Emirati; un ulteriore 20% sarebbe coperto sotto l’egida del Covax, lo strumento che mira a garantire un accesso giusto ed equo a tutti i Paesi del mondo cogestito da Gavi (l’Alleanza per i vaccini), dalla coalizione per l’innovazione in materia di preparazione alle epidemie (Cepi) e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Data la realtà sul campo e il controllo di fatto che Israele esercita sui movimenti di beni e persone sia in Cisgiordania sia a Gaza, esso dovrebbe assicurare la disponibilità di vaccini. Finora, sulla base di quanto il governo ha riferito alla Corte suprema, lo ha fatto in misura limitata, quasi simbolica.
Eppure, lo prescrivono le obbligazioni imposte dal diritto internazionale che assegnano la responsabilità in materia allo Stato occupante (gli articoli 55 e 56 della Convenzione di Ginevra del 1949); lo suggerisce una realistica cognizione della facilità di trasmissione del virus agli israeliani che vivono negli insediamenti o in Israele stesso; lo impone un imperativo etico-politico, come affermato in petizioni di organizzazioni non governative (Ong) israeliane quali Rabbini per i diritti umani e documenti rilasciati da un’altra Ong.
Infine, Israele ha esteso la vaccinazione ai circa 450.000 suoi cittadini che abitano negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ratificando anche in ambito sanitario il regime discriminatorio che separa le due popolazioni: uno stesso territorio, un trattamento diseguale.
Giogio Gomel