Perché diventi concreto il concetto di “due popoli, due stati” è indispensabile il mutuo riconoscimento dell’esistenza di due popoli, radicalmente diversi per storia e religioni e cultura politica
Per quanto abusata, difficile trovare una metafora migliore. Il prolungarsi della guerra a Gaza, guerra legittima in quanto scatenata dall’inaudito ed efferato attacco da parte di Hamas (che non smette di lanciare quotidianamente missili contro Israele), e della detenzione degli sventurati ostaggi (segregati non solo da Hamas ma anche da altri gruppi armati palestinesi), è come un’interminabile notte di angoscia: per i soldati israeliani, che sono il fior fiore della società civile israeliana che si autodifende, e per l’involontaria eppur tragica morte dei civili palestinesi, specie di bambini, pochi o tanti che siano, oltre che per quegli ostaggi e le loro famiglie, che legittimamente non smettono di protestare in pubblico, persino all’estero, affinché le autorità politiche e militari israeliane facciano di più per riportarli a casa. Nessuno può sapere ad oggi cosa succederà ‘dopo’… dopo la guerra in corso, dopo aver smantellato i tunnel e le altre infrastrutture di Hamas, dopo i troppi morti dall’una e dall’altra parte, cioè dopo l’allargarsi del mare che simbolicamente divide mondo ebraico (non solo israeliano) e mondo arabo (non solo palestinese). Chi oserò attraversarlo di nuovo? E quando?
Da molte settimane ho tolto dalla mia libreria un volume che sapevo, che so importante e a suo modo illuminante, in queste ore di buio, ma solo pochi giorni fa ho trovato il coraggio di aprirlo, di (ri)leggerlo. Si tratta di un’ampia raccolta di testi di Martin Buber, che spaziano dal 1918 al 1965, scelti e introdotti dal professor Paul Mendes-Flohr, per decenni docente all’università ebraica di Gerusalemme (e mio Doktorvater in quell’ateneo), raccolta edita in tedesco nel 1983 e poi tradotta in molte lingue. Apparso per i tipi di Giuntina nel 2008, il volume in italiano si intitola Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba ed è stato curato da Irene Kajon e Paolo Piccolella. Si tratta di uno straordinario spaccato di storia del sionismo, quasi un’analisi stratografica delle idee, dei dibattiti e dei dilemmi ebraici che hanno accompagnato la realizzazione del sogno sionista – prima e dopo la nascita dello stato di Israele – nei diversi momenti in cui quel sogno tangeva, per così dire, la realtà dell’esistenza e della resistenza del mondo arabo. Non può certo consolare, oggi, il sapere quanto profonde siano le radici del conflitto più che centenario tra i due mondi; ma alla storia – di persone e idee, di partiti e conflitti – non chiediamo consolazione ma piuttosto lumi, qualche spiraglio di comprensione nuova, forse lo svelamento di situazioni antiche che aiutino a capire come si sia arrivati, sui tempi lunghi, alla notte odierna e, semmai, a intuire quali passi falsi sono stati compiuti in passato, che aiutino a prevenirne di simili in futuro. Non si dimentichi: il sionismo buberiano è quello che ha perso, che fu cioè rifiutato dal mainstream e giudicato utopistico e perciò scartato dalla storia stessa. Vero. Ma proprio questo loser Zionist pose allora, e pone ancora oggi attraverso i suoi scritti (qui raccolti e magistralmente spiegati da Mendes-Flohr), alcune domande cui la storia non ha risposto, alcune questioni che restano ancora aperte, per chi non voglia ignorarle. (Mendes-Flohr ha pubblicato nel 2019 la fondamentale biografia intellettuale Martin Buber: a Life of Faith and Dissent).
Ora, la ragione per cui ho rispolverato questa raccolta buberiana ha molto a che fare con il titolo. Infatti si sente spesso ripetere che la soluzione al conflitto, o meglio che il post-conflitto Hamas-Israele non può che avere come soluzione la formula “due popoli, due stati”. Sottinteso: lo stato di Israele e lo stato di Palestina. Personalmente nutro forti dubbi che questa soluzione sia praticabile nell’immediato, al cessare del fuoco armato. Tale formula può essere addirittura fuorviante, tanto giusta sul piano morale quanto irrealistica in concreto, almeno fino a quando non sia posta in essere una premessa che resta il fondamento di ogni possibile soluzione politica: la premessa del mutuo riconoscimento dell’esistenza dei due popoli, radicalmente diversi per storia e religioni e cultura politica (seppur con due lingue dalla comune matrice semitica), nondimeno due popoli che amano e rivendicano e si contendono un’unica, medesima terra. “Due popoli, una terra”: ecco la formula che deve precedere quella dei “due popoli, due stati”, e questa precedenza ha un senso che solo la storia degli ultimi cento/centocinquant’anni spiega e illumina. Di questa storia v’è traccia, e profonda, nei documenti buberiani di cui sto parlando.
Durante una presentazione del mio instant book Gerualemme e Gaza. Guerra e pace nella terra di Abramo (edizioni Scholé, uscito un mese dopo il 7 ottobre 2023), un uditore mi ha fatto notare che nell’espressione “mutuo riconoscimento” da me usata v’è un errore storico, ìnsito nell’aggettivo ‘mutuo’: Israele ha sempre riconosciuto l’esistenza del popolo palestinese, ha sempre cercato di venire a patti con i leader arabi e il suo primo ministro Rabin ha stretto la mano persino ad Arafat… Da parte palestinese invece non si è mai voluto sostanzialmente riconoscere l’esistenza di Israele e negli statuti di gruppi come Hamas l’obiettivo politico, l’unico vero obiettivo politico, è soltanto la distruzione dello stato di Israele e lo sradicamento della presenza ebraica da quella terra, proclamata islamica in modo eslcusivo. Accetto in parte quest’obiezione. Ma proprio tale tema, sintetizzato come ‘la questione araba’, è al centro dei testi che rivelano le accese controversie interne al movimento sionista sin dai suoi esordi, e non solo i timori del sionista dissenziente Buber. Rileggerli induce a ripensare la storia, a ripensarsi nella storia, in quella storia che continua sotto i nostri occhi, senza timore che il coraggio di allora risuoni come provocazione o, chas ve-chalilah, come delegittimazione per l’oggi.
Scriveva Buber nel 1941: «Quello che importa è che noi riconosciamo, di volta in volta nell’ora delle decisioni, con la massima responsabilità ed energia della coscienza, quanto è richiesto per la difesa della [nostra] comunità, ma che ci assumiamo anche il compito di non scambiare l’esigenza di vita con la volontà di potenza; e, in linea di principio, di non lasciar spazio ad alcun ambito in cui non valga il comandamento divino, ma di concepirlo come una necessità, una sofferenza e un doloroso sacrificio, se l’ora ci costringe ad agire contro tale comandamento». E quattro anni dopo affermava: «Non possiamo evitare del tutto di compiere ingiustizia; ma ricade su di noi il dovere di non compiere più ingiustizia di quella che siamo costretti, appunto, a compiere». L’ultima cosa di cui Buber poteva immaginare di essere accusato era di non essere realista.
Ecco un altro passo emblematico, di quasi cent’anni fa, che rinveniamo in questo volume. Alla vigilia del XIV congresso sionista, dell’agosto 1925, Robert Weltsch scriveva su un settimanale sionista tedesco: «Vi è un popolo senza terra [il popolo ebraico] ma non vi è nessuna terra senza popolo… La Palestina [secondo il gergo geopolitico allora usato per la terra di Israele] sarà abitata sempre da due popoli, da ebrei e da arabi… Questa terra può prosperare solo se c’è un rapporto di reciproca fiducia fra i due popoli. E questo vi può essere soltanto se quelli che arrivano, cioè noi, vengono con la leale e onesta volontà di convivere con l’altro popolo, sulla base del rispetto reciproco e l’attenzione per i diritti umani e nazionali di tutti». Robert Weltsch (Praga 1891-Gerusalemme 1982), a lungo giornalista di Haaretz, fu amico non solo di Buber, ma di personalità come Albert Einstein e Chaim Weizmann; egli può, a sua volta, essere considerato come un sionista utopista o un mero idealista. Ma non si può negare che abbia visto bene: prosperità e pace – lo shalom ebraico – sono e saranno sempre impossibili senza una vera fiducia reciproca tra i due popoli. Non è una profezia, è una mera constatazione. Ripeto, nessuno sa oggi cosa succederà ‘dopo’. Immagino che Gaza verrà prima o poi ricostruita, materialmente. Ma se non si ricostruiscono i rapporti di fiducia, base del mutuo riconoscimento, e se non si entra nella logica della condivisione delle risorse, da parte di tutti, la soluzione “due popoli, due stati” non sarà una vera soluzione e resterà una formula vuota.
Come Paul Mendes-Flohr ricorda al termine della sua introduzione: «L’emunà, la fiducia [di cui parlano Buber e Weltsch] è vicina all’idealismo etico dei neokantiani e deve essere vista come l’imperativo categorico che determina il nostro agire. In questo senso Buber ha fatto suo il motto neokantiano del suo amico Gustav Landauer: “La pace è possibile perché è necessaria”».
fonte JoiMag