Episodi di antisemitismo – aggressioni fisiche, insulti e minacce nei media, profanazioni di luoghi di culto e cimiteri ebraici – segnano un preoccupante risorgere in vari paesi d’Europa. In Francia, le statistiche governative indicano un vistoso aumento di tali episodi nei mesi della guerra in corso fra Israele e Hamas, in seguito all’eccidio di massa perpetrato da quest’ultimo nel sud di Israele e alla massiccia ritorsione da parte dello stato ebraico. Secondo i dati recenti dell’Osservatorio sull’antisemitismo della Fondazione CDEC, analoghi segni di un incrudirsi di sentimenti e atti diretti contro individui e istituzioni ebraiche si osservano anche in Germania, nel Regno Unito e altrove, inclusa l’Italia. I dati registrati rappresentano, in realtà, una sottostima del fenomeno poiché riflettono solo le denunce esplicite e non i numerosi casi che restano ignoti.
I parallelismi con gli anni Trenta del Novecento sono fuorvianti: oggi non esiste un antisemitismo di stato e, in generale, le istituzioni pubbliche sono impegnate a combattere rigurgiti antisemiti con un’azione di educazione, vigilanza e prevenzione. Tuttavia, in diversi segmenti della società europea persistono zone di connivenza, copertura o sorda passività che alimentano un senso di impunità in coloro che predicano ostilità contro gli ebrei. Un passo significativo è stato l’approvazione da parte del Consiglio dell’Ue, nel 2018, di una definizione operativa di atti di antisemitismo concordata dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Questa stessa definizione era stata approvata nel 2016 dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), con l’adesione di 56 paesi, tra cui alcune repubbliche mussulmane dell’ex URSS, e la sola opposizione della Russia.
L’antisemitismo in Europa
Eppure la patologia persiste e si diffonde in Europa senza complessi, abbattendo tabù e riesumando vecchi stereotipi. Sebbene siano gli ebrei a soffrire direttamente dell’antisemitismo e della sua lunga, dolorosa e orribile storia nel continente, esso rappresenta un sintomo acuto del malessere di una società e del degrado di forme di convivenza civile e democratica. Riflette l’ascesa di partiti e movimenti che esaltano l’identità etno-nazionale o persino razziale, l’intolleranza vero il diverso e il rifiuto dei diritti delle minoranze. Minoranze come quella ebraica, per le quali una società aperta e plurale, in cui le molteplici identità, culture, comunità sono riconosciute come legittime e rispettate, è una condizione vitale di esistenza.
Inoltre, la natura multiforme di questo malanno sconcerta. Già nel 2017, Manuel Valls, allora Primo ministro di Francia, pubblicò un J’accuse riguardo la confluenza tra la tradizione antisemita della destra estrema e un’ideologia sedimentatasi in quartieri delle città abitati da figli di immigrati mussulmani, dove la predicazione all’odio da parte di Imam integralisti è particolarmente forte. Questa ideologia importava sul suolo francese il conflitto israelo-palestinese, trasmutandolo in una contrapposizione malata fra arabi ed ebrei, e rifacendosi a vecchi temi dell’antisemitismo europeo, quali il complotto mondiale, il potere politico e finanziario degli ebrei e altre simili finzioni.
Nelle manifestazioni organizzate nelle università o nelle strade delle città d’Europa e degli Stati Uniti domina ora una virulenza contro Israele che spesso degenera in palese antisemitismo, come se gli ebrei del mondo fossero unanimemente concordi, o peggio complici, delle decisioni e azioni dei governi di Israele. È una virulenza gravida di posizioni manichee e grossolane distorsioni della storia – August Bebel definì alla fine dell’Ottocento questo tipo di ideologia il “socialismo degli imbecilli”. È una virulenza segnata da una ideologia post-coloniale, secondo cui Israele sarebbe un prodotto malato del colonialismo europeo.
Due Stati per due popoli
La storia della Palestina è invece quella di una terra soggetta al colonialismo turco-ottomano prima e britannico dopo la Prima guerra mondiale, contesa da circa un secolo da due movimenti nazionali, quello ebraico e quello arabo, attanagliati in un doloroso conflitto, spinti da un legittimo anelito all’autodeterminazione. Il sionismo nacque alla fine dell’Ottocento con l’intento di rimuovere l’eccezionalità della condizione ebraica, quella di un polo disperso e perseguitato, assicurando agli ebrei un luogo di rifugio e la normalità dello “stato-nazione”. Uno stato ebraico non garantisce di per sé, come dimostra la cronaca funesta di questi mesi, la sicurezza fisica per i suoi abitanti né la rimozione di quella condizione di precarietà: il diritto di Israele a una legittima esistenza è ancora oggi in dubbio. Non soltanto nella barbarie omicida di Hamas e dei suoi apologeti, ma anche in coloro che inneggiano a una Palestina libera e integra “dal fiume al mare”, negando così il diritto degli ebrei all’autodeterminazione e il principio di spartizione di quella terra contesta in “due stati per due popoli”.
Il trauma di questi mesi rivelerà alla coscienza di Israele quanto sia illusoria l’idea che il conflitto possa risolversi senza porre fine all’occupazione e alla convinzione di poter reprimere le aspirazioni palestinesi a uno stato degno di questo nome. Oppure, al contrario, indurirà ulteriormente gli israeliani convinti che tutti i palestinesi siano come Hamas e che un loro stato lungo i circa 600 km del confine orientale di Israele rappresenti un pericolo. Tuttavia, nel dibattito, soprattutto in Occidente, molti hanno sottovalutato la gravità del trauma che affligge Israele, sostenendo che quest’ultimo abbia provocato questa tragedia con le sue azioni. Altri, soprattutto nelle università, fagocitati da un presunto “antioccidentalismo” – quando Israele non è “Occidente” né per la sua composizione demografica né per la sua identità socio-culturale – rigettano Israele come stato “coloniale” o “post coloniale” . Per altri ancora l’eccidio di massa di israeliani il 7 ottobre 2023 è stato un perverso motivo di celebrazione.
Forse il principio cui dovremmo ispirarci in queste drammatiche circostanze è quello della “doppia lealtà” – un’accusa speciosa spesso rivolta alla sinistra, un’imputazione di tradimento. Al contrario, affermare l’illiceità della violenza contro i civili, da una parte e dall’altra, rigettare la disumanizzazione del “nemico”, riconoscere, pur con fatica, le ragioni dell’altro, devono essere i principi informatori di un autentico impegno per la pace.
Giorgio Gomel