Human Rights Watch – una meritoria organizzazione dedita dalla sua fondazione alla denuncia di violazioni dei diritti umani nel mondo – ha pubblicato un rapporto (Threshold crossed: Israeli authorities and the crimes of apartheid and persecution), che definisce gli atti di Israele nei confronti dei palestinesi oppressivi, disumani, diretti al dominio di un popolo – quello israeliano – su un altro – quello arabo-palestinese; ciò configura, secondo la definizione legale incorporata nello Statuto della Corte penale internazionale, un regime di «apartheid» e di persecuzione, quindi un crimine contro l’umanità. Un’accusa siffatta è stata rivolta anche al governo di Myanmar per il trattamento inflitto alla minoranza mussulmana dei Rohingya e a quello indiano per l’oppressione della casta dei Dalit.
Ritengo la tesi che ispira il rapporto non corretta metodologicamente. Postulare una quasi identità fra le condizioni dei palestinesi cittadini di Israele (il 21% della popolazione), di quelli della Cisgiordania e di quelli che abitano nella striscia di Gaza, in quanto soggetti sic et simpliciter a un regime di controllo esercitato da Israele, è fuorviante. Gli arabi israeliani sono cittadini dello Stato, godono di pieni diritti civili e politici, sono elettori ed eletti (15 seggi nel Parlamento israeliano nelle elezioni del 2020, 10 nell’ultima tornata elettorale del marzo scorso). Soffrono di disuguaglianze socio-economiche e di discriminazioni sul mercato del lavoro, nell’offerta d’istruzione, nella disponibilità di terreni per abitazioni; una parte di loro, beduini, abitano in villaggi non riconosciuti dallo Stato nel deserto del Negev o in Galilea, privi di accesso all’acqua e all’energia elettrica.
Diverse Ong israeliane (Sikkuy, Adalah) ne denunciano da tempo la gravità. La legge dello Stato-nazione, approvata nel 2018, codifica inoltre uno status privilegiato dell’etnia ebraica rispetto ad altre, definendo Israele «Stato-nazione del popolo ebraico» e disconoscendo il fatto che vi è in Israele un’altra etnia che non può influire sul carattere dello Stato di cui i suoi membri – arabi – sono cittadini con pari diritti: pari diritti individuali, ma non con diritti collettivi di minoranza nazionale (G. Gomel, Israele tra democrazia ed etnocentrismo, «Aspenia», agosto 2018).
Eppure, se il presunto regime di «apartheid» si applicasse anche agli arabi di Israele, in una democrazia limitata ai soli ebrei, come potrebbero altre Ong israeliane, quali B’tselem, Yesh Din o Ha Moked da tempo agitare il tema?
Yesh Din ha determinato in un’opinione legale resa nota nel luglio 2020 (The occupation of the West bank and the crime of apartheid: legal opinion) che il persistere dell’occupazione della Cisgiordania comporta un crimine di «apartheid» (l’estensore principale del testo è Michael Sfard, avvocato israeliano difensore dei diritti umani e civili dei palestinesi, autore di un libro essenziale sul tema (The wall and the gate: Israel, Palestine and the legal battle for human rights).
B’tselem, nel gennaio scorso, ha definito il sistema ivi vigente un «regime di supremazia ebraica» (A regime of Jewish supremacy from the Jordan river to the Mediterranean sea: this is apartheid).
Assai diversa è la condizione degli abitanti di Gaza, soggetti al regime dispotico di Hamas, separati fisicamente dalla Cisgiordania, costretti in loco dal blocco a movimenti di persone e beni da e verso la Striscia che Israele ha imposto dopo il suo ritiro del 2005 con il ricorrente esplodere di violenze fra Hamas e la sua alleata Jihad islamica e l’esercito di Israele, nel 2008-2009, 2012, 2014 e ancora in questi giorni di maggio 2021: una coazione a ripetere che affligge la regione, con danni devastanti ai civili, alle loro case, alle infrastrutture, alla normalità quotidiana.
Diverso è, infine, l’assetto del dominio di Israele in Cisgiordania, dove la zona C (circa il 60% della superficie complessiva) è sottoposta al regime di occupazione militare di Israele, mentre le zone A e B, dove vive la parte preponderante dei circa 2,5 milioni di palestinesi, è soggetta alla sovranità, ancorché limitata e spesso violata dallo stesso Israele, dell’Autorità palestinese. Nella zona C, dove abitano i circa 450.000 coloni israeliani, vigono due regimi legali separati: i coloni, cittadini di Israele, soggiacciono alla legge civile del loro Stato, mentre i palestinesi sono soggetti alla legge militare d’occupazione.
Paralleli o paragoni semplicistici con il Sud Africa, che il termine «apartheid» ovviamente evoca nel dibattito pubblico, pur non essendo in alcun modo suggeriti nel rapporto, sono peraltro del tutto fuorvianti. Non vi è un sistema di segregazione razziale; non vi è un’ideologia che codifichi una gerarchia di razze come nel Sud Africa dove una minoranza «bianca» opprimeva una maggioranza «nera». Le bizzarrie della demografia implicano, fra l’altro, nel caso di Israele e Palestina un’equivalenza: circa 6,8 milioni di arabi e 6,8 milioni di ebrei vivono in quel lembo di terra dal mar Mediterraneo al Giordano.
Certamente, un’occupazione di 54 anni non è più un fatto temporaneo; non è più un elemento di trattativa, come negli anni successivi alla guerra del 1967 e fino agli accordi di Oslo del 1993, per uno scambio fra territori e pace. Sotto la pressione del movimento dei coloni e dei partiti di destra che sostengono l’espansione degli insediamenti, la confisca di terreni anche di soggetti privati palestinesi, la demolizione di case e strutture che costringono un numero crescente di abitanti all’abbandono dei loro luoghi di vita, il susseguirsi di decisioni amministrative che estendono la legge civile israeliana a parti della Cisgiordania rendono un futuro di due Stati indipendenti e in rapporti di buon vicinato via via più difficile e la realtà emergente nei fatti di uno Stato unico con diritti diseguali più vicina.
Il metodo argomentativo che informa il rapporto appare però, forse per il prevalere di un’impostazione legalistica, del tutto astorico: come se l’intento di dominio e il regime discriminatorio fossero ingredienti costitutivi da sempre del sionismo e dello Stato di Israele sin dalla nascita.
La forza egemonica dei partiti di destra e lo spostamento profondo avvenuto nella società israeliana verso posizioni etno-nazionaliste sono anche una conseguenza nefasta della strada nichilista imboccata anni fa dai palestinesi: l’esplodere della violenza terroristica contro i civili israeliani negli anni 2001-2005, l’inutile guerriglia mossa da Hamas dalla striscia di Gaza, il rigetto da parte di Abu Mazen delle offerte positive del governo Olmert nei negoziati del 2008 che dischiuse la porta alla premiership di Netanyahu e da allora ai governi del Likud con i partiti religiosi con esso alleati.
Ma il conflitto che attanaglia i due popoli da oltre cent’anni contrappone due movimenti nazionali che rivendicano un diritto di autodeterminazione su uno stesso lembo di terra conteso.
Il sionismo, visto da dentro, é stato il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico: gli ebrei si affermarono soprattutto nell’Est europeo come gruppo etnico, non più come comunità religiosa, anelante a fuggire dall’antisemitismo e ad autodeterminarsi nella propria «patria» storica, a diventare ivi una nazione «normale» dopo secoli di esilio e persecuzioni; ma quella terra era abitata da altre genti – arabi – , sudditi dell’impero ottomano e poi britannico, che col tempo, anche in virtù del confronto duro con il nazionalismo ebraico, acquisirono un’identità nazionale come palestinesi.
Ai palestinesi il sionismo apparve come un movimento di stranieri colonizzatori, a cui bisognava resistere. Ancora oggi, per la loro psicologia collettiva che ha vissuto l’insediamento degli ebrei in Palestina come un’ingiustizia e un’usurpazione dei propri diritti, è difficile accettare le conseguenze di questi eventi, la presenza ebraica in Palestina, l’esistenza dello Stato d’Israele. A molti di loro gli ebrei appaiono ancora come una realtà transeunte nella «umma» mussulmana, quasi fossero dei crociati o una comunità religiosa, non un popolo a cui riconoscere il diritto a un proprio Stato. Tardivamente, almeno nelle istanze ufficiali, lo hanno riconosciuto, con le decisioni del loro Consiglio nazionale nel 1988 e gli accordi di Oslo del 1993.
Guardando al futuro, la questione è come assicurare che Israele resti lo «Stato degli Ebrei» nel senso di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, ma anche una democrazia piena per tutti i suoi cittadini. Per molti questo è un ossimoro, un’impossibilità. Io penso di no, ma vedo segni preoccupanti del degrado della democrazia con le leggi illiberali approvate negli ultimi anni. Per essere una democrazia compiuta, Israele dovrà fare tre cose che ne trasformino lo status quo: i) porre fine all’occupazione e spartire in un negoziato con un futuro Stato di Palestina la terra compresa fra il Giordano e il Mediterraneo, lungo i confini pre 1967, con scambi di territori concordati fra le parti; ii) trattare in modo paritario i cittadini ebrei e non ebrei, anche nella sfera economico-sociale; iii) separare religione e Stato. La prima è la più urgente e fondamentale. Di tre cose – Israele come Stato-nazione del popolo ebraico, come democrazia, come Terra di Israele nella sua integrità biblica – due sole si possono conseguire.
O Israele rinuncia a una parte rilevante della Cisgiordania, negozia uno scambio paritario di territori (incorporando gli insediamenti più prossimi alla Linea verde, confine armistiziale del 1949), evacuando le altre colonie e conservando così la sua identità di Stato ebraico e democratico, in cui gli ebrei sono maggioritari, ma gli arabi godono dei pieni diritti civili e politici di una minoranza nazionale. Questo comporta – e non è piccola cosa – evacuare più di 100.000 coloni che risiedono in una miriade di piccoli insediamenti dispersi nell’area C, ben oltre il tragitto della barriera di separazione. Oppure, perpetuando l’occupazione fino alla piena annessione de facto, Israele si tramuta in uno Stato binazionale, con uguali diritti per i cittadini ebrei e arabi, come vuole la democrazia; così però gli ebrei saranno in minoranza e finirà il sionismo nelle sue fondamenta ideali e nella sua concreta attuazione, cioè di fondare un Paese in cui gli ebrei non siano soggetti al potere di altre comunità o etnie dominanti e all’antisemitismo. Oppure, infine, inseguendo l’idea fondamentalista dell’integrità della Terra di Israele e del suo possesso esclusivo, Israele annette il territorio e, privando i palestinesi dei loro diritti, conserva l’ebraicità dello Stato, ma in un regime di segregazione che sarà segnato da una perenne guerra civile fra arabi ed ebrei.
Giorgio Gomel
fonte il Mulino 21 MAGGIO 2021