Israele e Gaza: orrore, sgomento, angoscia

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Il conflitto israelo-palestinese si va incrudendo in un’orgia di brutalità, soprattutto lungo i confini fra Israele e la striscia di Gaza dopo l‘aberrante eccidio di massa di israeliani da parte di militanti organizzati e armati da Hamas. Nel governo di Israele, le fazioni piu’ oltranziste spingono ad una ritorsione massiccia. Non si fa distinzione tra i mandanti e manovali del terrore e i palestinesi come popolo: questo è trattato come un nemico che non merita fiducia, che non può essere interlocutore di un negoziato, che deve essere domato con la forza delle armi.

Al di là della cruda conta delle vittime, dei lutti e delle sofferenze di gente segnata per la vita dalla violenza, la mancanza di una strategia di lungo termine in ognuno degli antagonisti attanagliati in un conflitto nefasto sconcerta l’osservatore imparziale e ancor più sgomenta chi come noi partecipa empaticamente del dramma dei due popoli.

Il settarismo cruento di Hamas

Hamas non ha una strategia: per lungo tempo ha condotto da Gaza una sciagurata guerra di guerriglia che ne ha esposto gli abitanti alle ritorsioni di Israele e non ha abdicato, nel suo settarismo ideologico, al principio del rifiuto dell’esistenza di Israele. E’ osteggiato dall’Egitto per il suo appoggio ai Fratelli musulmani nonché isolato da parte rilevante dei governi di altri paesi arabi.

L’antagonismo con l’Autorità palestinese dominata da Al-Fatah permane, malgrado l’accordo di riconciliazione negoziato nel 2017 che contemplava l’esercizio da parte della stessa Autorità della giurisdizione civile-amministrativa (ma non del potere militare) su Gaza. La condizione della popolazione sul piano dell’economia, della disponibilità di energia, dell’ambiente e della sanità, è drammatica. L’ acqua potabile è limitata e spesso inquinata; l’energia elettrica è disponibile solo per alcune ore al giorno; la disoccupazione supera il 40%, fra i giovani il 60. Parte rilevante degli abitanti sopravvive grazie al soccorso erogato da organizzazioni umanitarie internazionali.

Israele-Gaza: una prospettiva storica

Quale strategia d’altra parte persegue Israele? Forse è stato un errore da parte di Israele – e del Quartetto (Onu, Stati Uniti, Russia, Ue) – fissare condizioni troppo cogenti nel 2007, al momento del successo elettorale e poi della presa del potere da parte di Hamas, per negoziare con esso. Oggi una trattativa è impensabile, al di là di un negoziato mirante al rilascio degli ostaggi. Lo stesso blocco terrestre e navale imposto dal 2007 alla striscia è stato forse vano: era lecito imporre restrizioni all’ingresso di beni e materiali per scongiurare il loro uso per produrre armi o costruire tunnel sotterranei da cui penetrare nel territorio di Israele, ma la natura del blocco, pur interrotto durante limitati periodi di tregua, è esiziale per la gente di Gaza.

Dal 2022 il governo di unità nazionale al potere in Israele ed anche quello attuale presieduto da Netanyahu concesse permessi di lavoro in Israele a lavoratori abitanti nel territorio di Gaza. Perché non si consentì a piccole imprese manifatturiere di esportare beni e semilavorati verso la Cisgiordania e lo stesso Israele al fine di stimolare l’economia e la formazione di una classe imprenditoriale interessata a un futuro di coesistenza pacifica?

Con il ritiro unilaterale di Israele nel 2005 Gaza poteva costituire un embrione di stato palestinese, sebbene necessitasse per diventarlo degnamente di un legame fisico e politico con la Cisgiordania – come le trattative successive agli accordi di Oslo del 1993 prefiguravano – , di luoghi di transito aperti, di un confine davvero sovrano con l’Egitto. Ma ciò poteva consentire, nel frattempo, un avvio di progresso civile ed economico per quella terra diseredata. Così non è stato. I palestinesi ne portano gravi responsabilità, in particolare il governo dispotico e militarizzato di Hamas. Ma Israele molto avrebbe potuto fare e forse ancora potrebbe con un futuro governo, dopo la sconfitta politico-militare di Hamas, formato da una possibile emergente leadership locale o con il ritorno a Gaza dell’Autorità palestinese, per alleviare le condizioni materiali della popolazione.

Oltre la forza delle armi

La sicurezza di Israele non può fondarsi sulla mera forza delle armi. Come dimostra la sua storia travagliata dalla nascita nel 1948 uno stato ebraico non significa di per sé sicurezza fisica per i suoi abitanti né la rimozione della condizione ebraica di precarietà. Anzi, il diritto di Israele ed esistere come stato accettato nella sua integrità nel Medio Oriente è tuttora messo in forse, cosa che infonde un senso di perenne insicurezza negli israeliani, l’angoscia di un paese forte ma anche debole, occupante ma anche assediato, sette milioni di ebrei in un immenso mare di arabi e mussulmani.

La sua sicurezza esige quindi la piena accettazione della sua esistenza da parte dei palestinesi e dei vicini arabi; presuppone la sconfitta degli oltranzisti di Hamas e delle altre milizie salafite ma anche la convinzione della popolazione che dall’azione non-violenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente. È quindi interesse preminente di Israele agire per dissociare la società palestinese dall’estremismo integralista. Le azioni militari al più agiscono da deterrente nel breve periodo, ma mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per gli estremisti fra i palestinesi e isolano Israele dalla comunità delle nazioni per l’eccesso di violenza contro i civili pur nell’esercizio del diritto di autodifesa.

Diritto certamente legittimo, ma la questione rilevante è come esercitare quel diritto. Michael Sfard, un avvocato che con altri rappresenta alcune ONG israeliane attive nella difesa dei diritti umani, ricorda: “Lo stato e l’esercito sostengono che l’uso di armi letali contro civili non armati è permesso anche in circostanze nelle quali essi non pongono un imminente pericolo di vita ad altri. Il numero enorme di vittime di queste settimane è il risultato diretto di questa tesi che non ha fondamento. Essa contraddice i principi fondamentali delle leggi che regolano l’uso della forza, cioè, mettere in pericolo la vita di civili è permesso solo per difendere la vita”.

 

Giorgio Gomel

fonte Affarinternazuionali

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