Scrive Mattia Feltri, direttore di questo giornale: “Israele non deve eccedere. Israele sta eccedendo. Questo verbo ricorre e risuona nella coniugazione delle opinioni”. Poi ricorda che il termine “eccedere” è presente anche più volte nel libro Riflflessioni sulla questione antisemita di Delphine Horvilleur (Einaudi). Secondo l’autrice “L’ebreo ‘eccede’ letteralmente, a priori: in lui c’è qualcosa di troppo, qualcosa di più del necessario, o di più ‘di quel che ho io’…”. In meno di un mese di guerra, abbiamo assistito ad una certa ambivalenza da parte dell’Occidente, e in particolare dell’Onu e delle cancellerie europee nei confronti di Israele. Paese che comunque, urge ricordarlo, si sta difendendo da un attacco contro il suo popolo che, per brutalità, non precedenti, dopo la Shoah. Riportiamo qui le parole del cancelliere Olaf Scholz: “La nostra Storia, la nostra responsabilità derivante dall’Olocausto, ci impone il dovere perenne di difendere l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele”. Eppure sono poche le cancellerie europee a non mostrare un atteggiamento quantomeno ambiguo nei confronti di Israele (non l’Italia e la Germania). Nella risoluzione dell’Assemblea Generale Onu che chiedeva una tregua umanitaria e che non faceva riferimento alla condanna dell’attacco di Hamas, hanno votato a favore Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Malta, Lussemburgo, Belgio e Slovenia. Mentre sono sempre più gli slogan antisemiti nelle piazze europee, anche italiane, slogan che equiparano sionismo a nazismo. E sulle porte delle case degli ebrei si comincia a ridisegnare la stella di David. Segno che i conti con l’antisemitismo in Europa, forse, non sono mai stati fatti. Huffffpost ha parlato dell’isolamento e della solitudine di Israele con Giorgio Gomel, economista, ex direttore studi e relazioni internazionali, Banca d’Italia. Membro del Comitato direttivo di JCall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno a una soluzione “a due Stati” del conflflitto israelo-palestinese. L’esperto ha parlato dei rapporti tra Europa e Israele nel libro: “Europe and Israel: a complex relationship”.
Giorgio Gomel, perché Israele viene tradizionalmente accostato all’eccesso?
La questione dell’eccesso è connessa alla questione storica dell’antisemitismo. E su questo tema bisogna analizzare due aspetti di carattere storico-fifilosofifico. La condizione degli ebrei nel mondo, con il sionismo e poi con la nascita della storia di Israele, è cambiata profondamente. Nel senso che gli ebrei, costituendo uno Stato, dopo la catastrofe immane del genocidio, con il sostegno delle Nazioni Unite, hanno realizzato una identità di Stato-nazione, dopo avere sofffferto una condizione di esilio, di soggezione ad altri popoli, di immani persecuzioni per 2 mila anni, in quella parte di mondo che in ebraico è chiamata “Terra di Israele” e in arabo “Palestina”. Il sionismo è nato con l’idea fondamentale di far diventare Israele una nazione normale, soggetto e non oggetto di storia, padrona del proprio destino.
Ma non è un ossimoro parlare di eccesso quando il popolo ebraico è sempre stato in una condizione di precarietà?
Infatti il sionismo non ha nulla a che fare con l’eccedere, nel suo signifificato originario. Il fatto che gli ebrei, ad un certo punto, siano arrivati a realizzare la propria identità nazionale è un punto fondamentale, ineluttabile, perché soprattutto dopo la Shoah e con un retaggio di esilio e persecuzioni, gli ebrei hanno inteso fare un passo fondamentale: essere in un posto nel mondo, uno Stato dove sono maggioritari. Ovviamente il creare un posto nel mondo dove si è maggioritari nel rispetto delle norme della democrazia è complesso. I cittadini arabo-palestinesi di Israele godono di pieni diritti civili e politici (il 20% della popolazione complessiva di quasi 10 milioni dello Stato di Israele di oggi), ma soffffrono, hanno una posizione di minorità dal punto di vista del lavoro, dell’istruzione, di disuguaglianze in campo socio-economico. Ora, tornando al discorso che le stavo facendo, il fatto di disporre di uno Stato non signififica di per sé la sicurezza fifisica per i suoi abitanti. Gli ebrei hanno subito una storia di guerre e di rififiuto da parte dei palestinesi e del mondo arabo circostante.
Vivono una condizione psicologica di precarietà, una minaccia incombente di distruzione. Il trauma del 7 ottobre è stato così immane perché – senza fare similitudini inappropriate con la Shoah, – non è mai successo, nella storia del Paese, che un attacco di questo tipo sia avvenuto nel territorio dello Stato, neppure nella guerra di indipendenza del 1948. Si è trattato del peggiore attentato antiebraico dalla Shoah. Quello precedente è stato l’attentato a Buenos Aires, all’associazione ebraica argentina, compiuto da Hezbollah nel 1994, con 84 vittime. Questo trauma conferma la condizione ebraica di insicurezza, precarietà, derivata dal fatto di non essere accettati come Stato e come società ancora oggi nel Medio Oriente. E lo si vede dalla perdurante minaccia esterna di Hezbollah a nord, di Hamas a sud e nel background quella dell’Iran.
Ecco, quello che mi stupisce è che stiamo parlando comunque di un Paese che si sta difendendo da un attacco terroristico disumano. Perché è così diffifficile accettare che Israele possa difendersi?
C’è un forte contrasto dentro Israele. Un contrasto drammatico soprattutto sul piano esistenziale. Israele è una nazione militarmente forte, ma è allo stesso tempo debole, per il senso di angoscia di una guerra perenne. Ricordo che David Grossman, 15 anni fa, in un festival della letteratura a Roma disse: “Israele è una nazione di rifugiati e immigrati da mille paesi del mondo, fifiglia di una storia di persecuzioni, ancora respinta dal mondo arabo-islamico, e quindi vive una condizione contraddittoria, di essere forte e debole”. Questo è un punto che è importante sottolineare, perché rilevante sul piano esistenziale. L’eccesso di Israele non deve essere involgarito dal discorso della vendetta o dai concetti antisemiti come la legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente”, che è un’idiozia. La legge, presente nella Bibbia, ha subito un’interpretazione distorta, tipica dell’antigiudaismo cristiano. Non signififica vendetta, il suo signifificato, invece, è che se si è stati offffesi, si può essere risarciti simbolicamente per un valore che è pari all’offffesa che si è ricevuta e non oltre. Invece si sente spesso dire che la vendetta di Israele riflflette la legge della Bibbia. Ecco queste affffermazioni sono pesanti come un macigno.
Allora perché spesso l’attacco di Hamas e la difesa di Israele non vengono messi sullo stesso piano?
Israele ha diritto all’autodifesa, così come è sancito nei principi del diritto internazionale. Ma nel reagire deve essere attento a rispettare il diritto internazionale, deve essere molto attento alle vittime civili. Ora, la condizione dell’area del conflflitto, la Striscia di Gaza, è particolarmente complessa da questo punto di vista, perché c’è una densità demografifica molto alta. Israele si difende dicendo che, a difffferenza di altri scenari di guerre altrove nel mondo, ha avvisato la popolazione prima di invadere. Ma è certo che sfollare verso il sud di Gaza milioni di persone è molto diffifficile. Oltre all’imperativo morale, c’è anche una ragione di raziocinio pragmatico che dovrebbe spingere Israele a essere attento alle vittime. Perché colpendo con così tanta violenza, si rischia di produrre un’ulteriore generazione di estremisti attratti da Hamas. L’interesse di Israele invece dovrebbe essere quello di separare la società palestinese dal terrorismo propugnato da Hamas. Il timore è, al contrario, che una guerra così prolungata e con un alto numero di vittime produca l’effffetto indesiderato di formare altri militanti di Hamas o di altre organizzazioni fondamentaliste.
Qual è la responsabilità dell’Occidente nell’isolamento di Israele? L’ambasciatore israeliano ieri ha indossato la stella gialla di Davide all’Onu, dicendo che non abbiamo imparato nulla, che Hamas è come il nazismo…
Io ritengo che sia profondamente sbagliato fare facili e dolenti paragoni con la Shoah. Quindi esibire la stella gialla o gridare all’antisemitismo è sbagliato, non corrisponde alla realtà. Sono eventi distinti, la Shoah ha una sua unicità che non deve essere toccata. Detto ciò, ho trovato molto negativo, io come altri osservatori, il fatto che nel testo della risoluzione dell’Onu non ci sia stato il riferimento all’eccidio di Hamas. È molto negativo il fatto che si sia parlato solo della reazione di Israele, dell’asimmetria della potenza militare, dell’urgenza di un cessate il fuoco, di salvare i civili. Da quel punto di vista il voto contrario o di astensione di alcuni Paesi, tra cui l’Italia, mi sembra legittimo. È un peccato che i paesi d’Europa si siano divisi, quando poi, anche se con fatica, al Consiglio europeo c’è stato voto unanime sull’urgenza di una pausa umanitaria.
Le cancellerie europee, in questi giorni, hanno avuto una sorte di ambivalenza di comportamento nei confronti di Israele. Lei ritiene che questo dipenda dal fatto che alcuni Paesi europei non hanno fatto ancora i conti con la Shoah?
Allora, non sarei così radicale nel dire che l’Ue è ambivalente nei confronti di Israele, non direi, ad ora, che è troppo critica nei confronti di Israele. Bisogna sottolineare che il confifine tra colpire Hamas e il cercare di non colpire i civili è molto labile, molto complesso e delicato. Noi abbiamo un’associazione di ebrei europei, che si chiama Jcall. Siamo nati più di dieci anni fa con un manifesto presentato al Parlamento europeo e sezioni operanti in Francia, Italia, Svizzera, Belgio, Spagna, Olanda. Siamo solidali con Israele, difensori del suo diritto all’esistenza e sicurezza, ma contrari al prolungarsi dell’occupazione. Siamo a favore di una soluzione “due popoli due Stati”. L’Ue ha cercato di fare il possibile, in questi anni, rispetto alla questione israelo-palestinese. Ha insistito sulla soluzione “due popoli, due Stati”, una posizione che mi sembra ragionevole. Alcuni Paesi dell’est europeo, dominati dalla destra, o con partiti antisemiti o negazionisti delle corresponsabilità dei loro Paesi nello sterminio nazista al governo, sono strumentalmente fifilo-israeliani, più fifiloisraeliani di paesi come Francia, Spagna e Italia. Mi inquieta il caso della Germania, perché è il Paese in Europa che più ha fatto i conti con il suo passato e invece ora registra la forte crescita del partito di estrema destra AfD, “Alternativa per la Germania”, che ha nelle sue fondamenta un manifesto antisemitismo.
Lei, però, ha scritto un saggio, dal titolo: “Europa e Israele, una relazione diffifficile”, in cui dice che esiste un certo grado di ambivalenza, sfifiducia e persino ostilità tra Europa e Israele. Gli europei vedono Israele sulla strada dell’occupazione permanente dei territori palestinesi. Perché questo rapporto così complesso?
Il rapporto è complesso nei due sensi. Larga parte dell’opinione pubblica israeliana è ostile all’Europa, la ritiene inquinata da sentimenti antisemiti. Diciamo che Israele contrappone la Ue agli Stati Uniti e, in parte, ha ragione di farlo. C’è effffettivamente un forte senso di diffiffidenza. E questo si traduce dal punto di vista diplomatico, con ambasciatori israeliani che faticano a dialogare con le controparti europee. Dall’altra parte, dal punto di vista degli europei, c’è un senso di rabbia, di inferiorità, perché non si sentono ascoltati da Israele. Il loro pensiero è: Israele non ci ascolta mai, ascolta gli Usa e a noi rinfaccia la smemoratezza circa il persistere dell’antisemitismo. L’Europa è giustamente esplicita nella condanna di Israele per l’espansione degli insediamenti e l’occupazione dei territori palestinesi . Noi ebrei di sinistra riteniamo giusto che essa difenda, in questo, le ragioni dei palestinesi, si opponga alla violenza dei coloni e all’indulgenza del governo e dell’esercito di Israele rispetto alle loro spedizioni punitive. Ci sono diplomatici europei che si recano in Cisgiordania nei villaggi e città oggetto di violenza e per noi questa azione è giustifificata, è un’azione di monitoraggio di atti di violenza inaccettabili inflflitti agli abitanti palestinesi. In ogni caso non trovo che da parte dei governi europei, di qualsiasi colore essi siano, ci sia un atteggiamento universale di ostilità a Israele. Anzi penso che la reazione degli europei sia stata in questi giorni di forte sostegno a Israele.
Però mi viene un’ultima riflflessione: non si sente quasi mai dire ad Hamas di riporre le armi, di salvare i civili, mentre lo si sente dire spesso ad Israele…
La storia del rapporto fra Occidente, e quindi anche Europa e Hamas è in realtà piuttosto limpida. Dal 2007, quando ci fu una quasi guerra civile a Gaza e Hamas con la violenza cacciò al Fatah fifisicamente in Cisgiordania, gli Usa, l’Ue, ma anche la Russia hanno posto delle condizioni molto chiare: nessun rapporto con Hamas fifinché non abbandona il terrorismo. Mi sembra che l’Occidente e l’Europa siano stati non solo solidali con Israele, ma anche coerenti su Hamas, nel corso degli anni.
Un’ultima domanda. Lei pensa che la soluzione “due popoli due Stati” sia l’unica via per risolvere questo conflflitto?
La cosa diffifficile da farsi, se posso fare un passo più in là, è che bisogna offffrire ai palestinesi in Cisgiordania o Gaza, una soluzione alternativa, un qualche spiraglio di negoziato, bisogna offffrire loro la possibilità che un giorno possa nascere uno Stato palestinese degno di questo nome. Il punto è sottrarre ad Hamas e ai fondamentalisti il consenso. E non è facile. Anche in questi giorni, in Cisgiordania, i giovani organizzano grandi manifestazioni in favore di Hamas e contro l’Anp. Magari non accettano la violenza e l’orrore, ma per loro Hamas simboleggia la resistenza a Israele occupante. Per un futuro di pace bisogna cercare in ogni modo di fornire una alternativa all’estremismo di Hamas. Bisogna pensare al dopo, alla questione politica che si aprirà una volta debellato il suo apparato militare.
fonte HuffPost Italia 2/11/23