Israele e Palestina, uscire dal vicolo cieco della reciproca crudeltà

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Dialogo a tutto campo con Giorgio Gomel, referente in Europa dell’Alliance for Middle East Peace che raduna 150 ong ebraico-arabe e israelo-palestinesi, ed esponente di JCall, rete di ebrei europei che sostiene la soluzione di «due Stati per due popoli» per il conflitto fra Israele e Palestina
Intervista a cura di Carlo Cefaloni
CITTÀNUOVA Dicembre 2023

Anche se si continua a ripetere che il vero nodo strategico mondiale si gioca nell’area asiatica del Mar Pacifico, resta centrale il quadrante geopolitico Mediorientale che appare sempre più, con il conflitto aperto tra Hamas e governo israeliano, un buco nero di odio incontenibile che rischia di travolgere tutti e tutto.
In uno scenario così plumbeo costituisce già un motivo di speranza poter parlare con Giorgio Gomel, voce autorevole di una rete di ebrei europei, Jcall, che è da sempre impegnata nella ricerca di una soluzione del conflitto israelo-palestinese fondata sulla formula dei “due Stati” e quindi sul riconoscimento dei diritti di entrambi i popoli presenti in Terra Santa. Jcall è una realtà molto vivace, come si può vedere nel ricco sito web accessibile in tre lingue, italiano compreso.
Di professione economista, Gomel ha diretto l’ufficio studi e relazioni internazionali della Banca d’Italia, senza tralasciare l’impegno nella propria comunità d’appartenenza e quello in campo civile. È tra i fondatori del gruppo romano “Martin Buber, ebrei per la pace”.

Esistono sprazzi di luce in questo buio, dottor Gomel?

Credo che, come in altre occasioni di guerra aperta tra Hamas e Israele (è avvenuto nel 2008, 2009, 2014 e 2021), occorra fare lo sforzo di pensare al giorno dopo. Certo, adesso si tratta di un eccidio di massa così devastante mai verificatosi sul territorio d’Israele. Un evento traumatico che non ha precedenti nella storia del Paese fin dalla sua fondazione nel 1948 e che ha colpito gli abitanti dei kibbutz collocati vicino al confine di Gaza, persone fra le più aperte al dialogo e alla collaborazione con i vicini palestinesi.

Un volto oggi poco noto della società israeliana…

Si tratta degli eredi del sionismo socialista che ha contribuito alla fondazione del Paese. Conosco molto bene alcune delle associazioni di volontariato attive nel dialogo e lavoro comune con le realtà palestinesi. Penso ai “Medici per i diritti umani” e a “Strada verso la guarigione”, una ong attiva nel trasferire i pazienti palestinesi di Gaza verso gli ospedali israeliani attraverso il vicino valico di Erez, l’ultimo varco di transito rimasto ancora aperto tra i due territori. Molti di loro sono stati uccisi nell’attacco di Hamas e altri sono tra gli ostaggi, come Vivian Silver, attivista israelo-canadese che è tra le fondatrici dell’organizzazione pacifista Women Wage Peace (“Le donne portano la pace”).

Sono fatti estremamente dolorosi ai quali si aggiungono i morti palestinesi a migliaia dei bombardamenti su Gaza in quella che lei ha definito “un’orgia di reciproca brutalità” dove si estingue la capacità di umana compassione.

L’efferatezza del terrorismo di Hamas, la violenza estrema contro persone inermi, si associano ad un senso di impotenza e di insicurezza fisica e psicologica che impedisce a molti israeliani ogni capacità di comprensione e compassione verso i palestinesi nel loro insieme. Questi sono percepiti come nemici assoluti con i quali è impossibile interagire se non con il linguaggio delle armi.

È ciò che ha detto esplicitamente il ministro della Difesa di Israele Yoav Gallant annunciando l’assedio totale di Gaza: «Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza».

È così, ma la maggior parte della popolazione non la pensa in questo modo. Paradossalmente proprio i parenti delle persone rapite sul confine con Gaza, in molte interviste si dichiarano contrarie a questa logica nella convinzione che “violenza genera ulteriore violenza” in una dinamica senza fine.
Io, come altri, penso che, davanti a questa realtà e a tanti altri eventi tragici precedenti, sia vano per Israele pensare di affidarsi per la sicurezza alla sola repressione militare del terrorismo senza aprire uno spazio per un negoziato che permetta ai palestinesi di cogliere il vantaggio del ripudio della violenza. Si deve far di tutto per separare la società palestinese dalla seduzione del terrorismo di Hamas.

In che modo?

Nel medio per1iodo credo che sia necessario riprendere le trattative con l’Anp; più nell’immediato penso ad una forza internazionale di interposizione come quella presente sul confine tra Libano e Israele, magari con la partecipazione di alcuni Paesi arabi. E poi auspicare, nel lungo periodo, l’indizione delle elezioni nei territori palestinesi che non si sono più tenute dal 2006 quando Hamas vinse a Gaza espellendo manu militari l’Anp dalla Striscia.

Ma davanti alle migliaia di morti civili a Gaza provocati dall’intervento militare israeliano non è prevedibile invece la radicalizzazione della popolazione che si riconosce in Hamas capace di infliggere un colpo così letale ad Israele? E poi l’Anp viene in genere considerata inaffidabile perché minata dalla corruzione e considerata inerte e collusa con il governo israeliano che di fatto gestisce i territori palestinesi occupati sostenendo l’azione aggressiva dei coloni.

È vero, tanto più che in Cisgiordania ci sono manifestazioni di protesta contro Abu Mazen e di sostegno ad Hamas visto come forza di liberazione. Ma occorre vedere nei fatti se davvero i 2 milioni e mezzo di palestinesi che vivono su quei territori sono concordi nell’affidarsi ad una realtà dispotica e oppressiva come Hamas e lo stesso si può dire anche di Gaza dopo anni di sottomissione e di povertà. I sondaggi elettorali di due anni fa ponevano Hamas in vantaggio sull’Anp ma il potenziale candidato che raccoglieva più consensi era e rimane Maruan Barghouti, il leader di Al Fatah che è in carcere dal 2002 ed è considerato il Mandela palestinese. Sarebbe perciò una cosa saggia la sua liberazione.

Ma restando fermo il punto di diritto dell’esistenza dello Stato palestinese, come fa a costituirsi praticamente se non esiste più continuità in un territorio occupato da migliaia di coloni israeliani che fanno il brutto e cattivo tempo?

Nelle ultime trattative del 2014 patrocinate da Obama si era giunti ad immaginare uno scambio di territorio tra il 4/5 % della Cisgiordania confinante con Israele che avrebbe ceduto un’area vicina al deserto del Negev. Non è la stessa cosa per fertilità della terra e vicinanza con Gerusalemme. Questo consentirebbe di incorporare in Israele oltre 300 mila coloni, per lo più ultraortodossi o immigrati da Russia o Etiopia, insediati grazie ad incentivi dello Stato, che hanno costruito delle vere e proprie città. Resterebbero altri 130 mila coloni circa sparsi per la Cisgiordania in insediamenti più piccoli e remoti che potrebbero essere indotti a spostarsi altrove in Israele. Ma molti appartengono purtroppo alla destra nazionalreligiosa più militante e potrebbero opporsi con il ricorso alla violenza. È un’ipotesi ardita di soluzione ma non ne vedo altre possibili. Teniamo conto che il precedente governo Nethanyahu, nel 2020, prevedeva l’annessione ad Israele dell’area C della Cisgiordania (quella cioè dove risiedono i coloni ebrei).

E la soluzione di uno Stato unico per due popoli? È ancora possibile dopo la dichiarazione del 2018 del Parlamento che parla di Israele come nazione del popolo ebraico?

È un’ipotesi accademica improponibile oggi. Il rischio è il formarsi di uno Stato unico che nasce per annessione de iure di ciò che è già avvenuto di fatto, con i palestinesi privati di diritti civili e politici sancendo una divisione tra Stato ebraico e democrazia. Una situazione insostenibile di uno Stato su base etnica destinata ad esplodere in guerra civile. In alternativa uno Stato binazionale pienamente democratico e egualitario comporterebbe, invece, in prospettiva, secondo la tendenza demografica, a prefigurare una futura maggioranza di popolazione araba. Ipotesi inaccettabile per gli ebrei in Israele e in ogni parte del mondo. È essenziale per noi che vi sia un luogo, Israele, dove un popolo si possa riconoscere ed essere maggioritario dopo secoli di esilio e persecuzioni.

Il diritto di essere padroni del proprio destino è l’espressione dell’ideologia sionista che va oltre le distinzioni di destra o sinistra tra gli ebrei. Ma essere antisionisti vuol dire anche, come affermano in molti, essere antisemiti?

Non lo è teoricamente, ma occorre considerare storicamente che il sionismo nacque come una corrente di pensiero assolutamente minoritaria nel mondo ebraico alla fine dell’800 ad opera di un ebreo occidentalizzato, l’ungherese Teodoro Herzl, al fine di fondare un inizio di insediamento ebraico in Palestina. Si scontrò con la corrente di coloro che volevano essere parte integrante degli Stati nazionali europei, con i numerosi militanti ebrei del socialismo rivoluzionario attratti dall’internazionalismo proletario e convinti che così l’antisemitismo sarebbe scomparso e, infine, con l’ortodossia rabbinica che attende la venuta del Messia per ricostruire Israele. È stata la persecuzione degli ebrei in Europa, l’avvento del nazismo e la Shoah a far percepire il sionismo come una necessità esistenziale. Il sionismo è nato come movimento di liberazione del popolo ebraico che decide di autodeterminarsi in una nazione, e non solo come una comunità religiosa oppressa o tollerata. Per questo motivo negare questo diritto all’autodeterminazione degli ebrei, riconosciuto a tanti altri popoli, è fortemente discriminatorio e molto vicino all’antisemitismo.

Ad ogni modo oggi Israele è uno Stato dove non ci sono solo gli ebrei.

Il 20% della popolazione, infatti, è araba e non vi sono discriminazioni verso le minoranze presenti al suo interno. Certo, gli arabi israeliani incontrano difficoltà sul piano sociale ed economico ma godono pienamente delle libertà e dei diritti civili. Fanno parte di più partiti e hanno deputati eletti nella Knesset. In alcuni ambiti, dall’università alla sanità, si registra una presenza notevole di arabi israeliani, soprattutto donne.

Una convivenza sempre in pericolo quando divampa il fuoco della guerra…

Lo scontro armato con Hamas del 2021 ha comportato violenze tra persone delle due comunità, con aggressioni a sinagoghe e moschee, all’interno di Israele. Niente di simile finora se non qualche licenziamento operato nel settore pubblico nei confronti di arabi che avevano esposto la bandiera palestinese, minacce rivolte a studenti arabi in alcune università, autisti palestinesi del traporto pubblico che non si sono presentati in servizio perché affermano di aver ricevuto delle minacce dai passeggeri. Ma ci sono volontari di ONG arabo-ebraiche che vigilano perché la situazione non degeneri.

Molti conflitti sono relativi alla proprietà delle case nel settore Est di Gerusalemme abitato dagli arabi. Come si risolve la questione della Città santa per i tre monoteismi? Se ne vuole fare la capitale unica e assoluta di Israele mentre resta sempre in piedi l’ipotesi della risoluzione dell’Onu del 1949 a favore di uno statuto internazionale di “città aperta”.

Sinceramente non vedo possibile questa soluzione che non avrebbe altre eguali nel mondo. A parere di JCall, di altre associazioni ebraiche favorevoli alla soluzione a due Stati e della sinistra israeliana, la città deve restare fisicamente unita ma amministrativamente divisa come capitale di due Stati. È richiesta ovviamente una grande fantasia istituzionale.

La difesa delle ragioni di Israele avviene oggi negli Usa come in Europa da parte delle forze politiche di destra o conservatrici, mentre molti intellettuali israeliani, tra i quali David Grossman, hanno denunciato l’indifferenza morale della sinistra davanti all’eccidio di Hamas. Come vive questa situazione da uomo di sinistra?

Con molto disagio, anche per la retorica che si fa di Israele come “bastione dell’Occidente”, spesso in funzione antislamica, mentre, soprattutto nell’Est europeo, i governi di destra sono molto assolutori verso la loro storia segnata pesantemente dall’antisemitismo. Israele non è espressione dell’Occidente, è parte integrante del Medio Oriente, in un Medio Oriente pacificato; in questo senso è da apprezzare il percorso degli accordi di Abramo conclusi con alcuni Paesi arabi.

Ma non sono accordi fatti senza coinvolgere i palestinesi e quindi senza affrontare l’origine del problema?

È questo il vulnus di quegli accordi che, come ha detto una nota giornalista israeliana, possono andare bene a parte il fatto che i palestinesi non abitano nel Golfo Persico. In questo senso, secondo alcuni osservatori, sembra che il possibile allargamento degli accordi all’Arabia Saudita, che sembrava imminente, sarebbe stato condizionato dalla tutela dei diritti dei palestinesi nei territori occupati.

Uno strano patrocinio. Come valuta il voto dell’Italia che si è astenuta sulla risoluzione Onu che chiede lo stop dei bombardamenti su Gaza?

Penso che sia stata una scelta sensata perché in quella risoluzione, che giustamente invoca la tregua umanitaria e il limite al diritto di autodifesa, è assente la condanna esplicita dell’eccidio di Hamas del 7 ottobre. Mentre la posizione della Ue che chiede l’adozione di pause umanitarie nel conflitto è chiara nel condannare il terrorismo di Hamas.

Parlare di pause non appare pilatesco di fronte all’urgenza di fermare il massacro in atto? Non è proprio la mancanza di un intervento forte dell’Europa il problema maggiore sul piano internazionale?

La mancanza di una linea condivisa europea è apparsa palese nell’ordine sparso con cui i vari Paesi hanno votato la risoluzione Onu.
Partiamo dal fatto che, in Europa, solo la Svezia riconosce lo Stato di Palestina.
Una scelta significativa che andrebbe seguita da altri governi, seppure sul piano simbolico, anche per favorire un negoziato reso più difficile per l’asimmetria esistente tra uno stato che c’è e un altro che non c’è.

È una decisione che dovrebbe compiere in primis l’Italia così come ha già fatto nel 2015 la Santa Sede?

È ciò che invitiamo a fare da tempo anche noi di JCall (rete di ebrei europei per i due Stati, www.jcall. eu) almeno dal 2012, quando la Palestina è stata riconosciuta come osservatore permanente presso l’Onu, pur con tutti i problemi sulla condizione dei territori palestinesi occupati.

Oltre il livello istituzionale resta la sorprendente vitalità della società civile. Lei è il referente in Europa dell’Alliance for Middle East Peace che raduna 150 ong ebraico-arabe e israelopalestinesi. Tali associazioni continuano a lavorare per costruire ponti di pace tra le due comunità pur in questo momento così buio?

In questo frangente così difficile, pur con tutti i limiti agli spostamenti, stanno organizzando un lavoro di vigilanza sui luoghi di culto e su quelli di incontro degli uni e degli altri per agire da deterrenza verso azioni ostili degli estremisti. C’è poi tutta un’attività sulla stampa e sui social media, come ad esempio qualche giorno fa l’intervento all’incontro di Rete italiana pace e disarmo delle rappresentanti israeliane e palestinesi dell’associazione Women Wage Peace, di cui fra le fondatrici vi è Vivian Silvers, rapita, come detto, il 7 ottobre da Hamas. Ma la lista di coloro che offrono un segno di speranza è molto ampia. Voglio ricordare in particolare alcune realtà emblematiche: Parents’ Circle Families Forum (il forum delle famiglie delle vittime della guerra e del terrorismo), Combatants for Peace, il Centro Peres per la pace, Givat Haviva, Hand in Hand (scuole bilingui araboebraiche), Kids4peace, Ecopeace Middle East, Sikkuy, Medici per i diritti umani, Rabbini per i diritti umani, Standing together, Abraham initiatives, Road to recovery.

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