L’assassinio di Rabin nel novembre 1995 fu un trauma profondo nella coscienza di sé di Israele e degli ebrei della Diaspora. Rivelò un substrato di fanatismo, di predicazione della violenza, di avversione ostinata alla coesistenza fra Israele e i palestinesi le cui radici sono in una concezione deformante, seppur minoritaria, dell’ebraismo che mitizza la sacralità della terra di Israele, che fa dei luoghi sacri e delle tombe degli avi oggetti di culto e riserva quella terra al possesso esclusivo degli ebrei. In quei giorni del 1995 scoprimmo che l’integralismo – sottovalutato, coperto, anche dopo la strage di musulmani in preghiera nella moschea di Hebron nel 1994 – non era soltanto un nemico esterno – l’Islam fondamentalista, l’induismo militante o le chiese evangeliche negli Stati Uniti – ma un qualcosa che abitava nelle nostre case. Anche nella terra di Israele si poteva uccidere nel nome di Dio, arrogandosi con insolenza scellerata una missione trascendente.
Come scrisse il Gran Rabbino di Francia René Sirat in una lettera indirizzata qualche giorno dopo l’omicidio a Shimon Peres : “Quando un valore – anche se un valore importante come il carattere sacro della terra d’Israele – si trasforma in valore assoluto, in nome del quale ci si arroga il diritto di uccidere un ebreo, un arabo, un essere umano, esso diventa oggetto di idolatria. In tal modo si abbandona il monoteismo affermato sul Sinai e che ordina ‘Non ucciderai’ per abbracciare un culto straniero, quello della violenza e dell’odio…”
Oggi, 20 anni dopo, questa aberrazione non è scomparsa. Figli e nipoti di quell’ideologia popolano le colonie più militanti in Cisgiordania, si oppongono allo sgombero di insediamenti edificati su terreni di proprietà privata di palestinesi fino a reagire alle decisioni in tal senso della Corte suprema con spedizioni punitive , estirpando ulivi dei loro vicini palestinesi, profanando moschee, incendiando le loro case fino all’assassinio di una famiglia intera, come accaduto a Kfar Duma, in Cisgiordania, nell’estate scorsa.
Rabin comprese i limiti della forza e la necessità del compromesso per giungere alla pace con i vicini palestinesi e gli stati arabi ed assicurare così a Israele un futuro di stato democratico a maggioranza ebraica. Comprese che pace e sicurezza sono strettamente legate. Comprese che non è possibile vincere con la mera forza delle armi e domare per l’eternità un altro popolo. Era questa la filosofia degli accordi di Oslo: il diritto degli israeliani alla pace e alla sicurezza come specchio di quello dei palestinesi all’indipendenza. Questi principi devono tornare ad essere alla base di un futuro accordo di pace.
Ricordo con tristezza e insieme un barlume di speranza in questi giorni così funesti quanto Rabin scrisse al Gruppo Martin Buber-Ebrei per la pace nel gennaio 1995 in risposta agli auguri che gli porgevamo per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace : ”La pace non è l’impresa di una persona sola, ma di molti. Lo sforzo di realizzare il sogno di vivere in pace è il nostro lascito ai nostri figli, palestinesi e israeliani…. Sono fiducioso che attraverso il dialogo e la cooperazione i nostri due popoli supereranno gli ostacoli posti da coloro che si oppongono alla coesistenza e che potremo conseguire gli ideali del Premio Nobel”.
Giorgio Gomel
Moked, UCEI, 5 novembre 2015