UN NUOVO GOVERNO IN ISRAELE: ETEROGENEO, PARALIZZATO? FORSE NO

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Il governo testé formatosi in Israele è una coalizione assai eterogenea di otto partiti. La sua raison d’etre primigenia è dettata da uno scopo che primeggia sul resto: porre fine alla disfunzione paralizzante per il paese prodotta dal ripetersi negli ultimi due anni di elezioni che danno luogo a governi di minoranza retti al vertice da Binyamin Netanyahu, leader del Likud e premier con ininterrotta continuità da 12 anni, nonostante le imputazioni che gravano su di lui per corruzione e abuso di fiducia e l’attesa di un processo che l’epidemia di Covid-19 e le lungaggini procedurali hanno posposto più volte. I temi cruciali per il paese – un accordo di pace con i palestinesi che soddisfi il loro diritto ad uno Stato indipendente, il rispetto dello stato di diritto, il legame complesso e contorto fra religione e politica, con il potere dominante delle autorità religiose in materia di diritti civili e di famiglia, le disuguaglianze socio-economiche – sono stati largamente elusi nel dibattito politico.

IL NUOVO GOVERNO

Il primum movens che ha ispirato il processo post elettorale fino alla decisione di questi giorni è una volontà di cambiamento che riflette una pulsione imprecisa, confusa, in parte indistinta e contraddittoria ma dominante nel paese, di cambiare rispetto ad un passato e un presente segnati dalla paralisi politica. Sarà peraltro difficile governare, in una coalizione che conta 61 voti su 120 e rappresenta voci, indirizzi, valori ideali e obiettivi molteplici e spesso confliggenti. Nel Parlamento e nell’opinione pubblica la destra resta egemone: 56 membri su 120 appartengono a partiti di destra (incluso il Likud che con 30 deputati è, pur all’opposizione, il partito ampiamente maggioritario nel paese), 72 se ai partiti della destra sommiamo i partiti religiosi unitisi in una “santa alleanza” con il Likud (sul tema della debolezza della sinistra in Israele, si veda “Perché la sinistra è così debole in Israele?”, settembre 2020).

Ma un sistema di veti reciproci fra i due premier, sanciti formalmente nel patto di governo che contempla un meccanismo di alternanza al vertice ogni due anni – tra www.cespi.it [email protected] Piazza Venezia 11 00187 Roma 2 Naphtali Bennett della destra nazional-religiosa, annessionista e solidale con il movimento dei coloni, e Yair Lapid del centro laico-moderato – renderà ardue decisioni radicali o innovative. In particolare, sulla questione del rapporto con i palestinesi prevarrà l’ambiguità de iure e l’annessione de facto di parti dei territori occupati che ha ispirato atteggiamenti e atti dei governi israeliani da tempo (si veda “La sinistra ebraica in Israele e nel mondo contro il piano di annessione di parti della Cisgiordania”).

GESTIRE – E NON RISOLVERE – IL CONFLITTO CON I PALESTINESI

La convinzione prevalente nel paese resta quella che il conflitto con i palestinesi possa essere “gestito” con costi tollerabili senza essere risolto, che lo status quo sia sostenibile, che i palestinesi sconfitti siano rassegnati ad una condizione di minorità e soggezione. Non ci saranno forse nuove confische di terra, demolizioni di case ed attività economiche, espansione degli insediamenti israeliani nella zona C della Cisgiordania sotto occupazione israeliana; vedremo forse qualche tentativo di alleviare le condizioni materiali di vita dei palestinesi nelle zone A e B sotto giurisdizione dell’Autorità palestinese. Non molto di più (Nathan Sachs, studioso della Brookings Institution americana, ha definito tale strategia “anti soluzionismo”).

Dei 27 ministri che compongono il nuovo governo, 11 possono definirsi “di centro”, 10 appartengono alla destra, 6 alla sinistra. Quest’ultima – formata dal Meretz, un partito contrario all’occupazione, difensore dei diritti civili, socialdemocratico nel suo orientamento in materia economico-sociale, e dal partito laburista – era esclusa dai governi ormai da venti anni.

Ancor più dirompente il fatto che, per la prima volta nella storia del paese dalla sua indipendenza nel 1948, il Ra’am, un partito arabo – anzi islamista in senso dottrinario, legato alla Fratellanza musulmana e fortemente conservatore in materia di diritti civili e sociali – sia partecipe a pieno titolo della coalizione: il suo leader Mansur Abbas sarà Sottosegretario per i Rapporti con la comunità araba presso l’ufficio del Primo ministro. Un tabù rimosso che riflette il processo di integrazione in atto della minoranza araba e ne legittima anche il peso politico in un frangente delicato segnato di recente dall’esplodere di violenze interetniche fra arabi ed ebrei in molte città del paese: aggressioni, profanazioni di luoghi di culto, incendi appiccati a case e cose.

La minoranza araba in Israele (circa il 20% della popolazione) soffre di disuguaglianze e discriminazioni sul mercato del lavoro, nell’offerta di istruzione, nella 3 disponibilità di terreni per abitazioni, nelle infrastrutture, che diverse ONG israeliane denunciano da tempo. Gli accordi firmati da Abbas nel suggellare il suo ingresso nel governo insistono perciò su un vasto programma di investimenti nelle infrastrutture, nell’edilizia e contro il crimine organizzato che inquina larghi strati della comunità araba.

L’ESCLUSIONE DEI PARTITI RELIGIOSI

I partiti di destra, oltre alla premiership di Bennett per i primi due anni di governo, occupano dicasteri importanti, quali gli Interni, la Giustizia, le Finanze, la questione di Gerusalemme e gli affari religiosi. Ma per la prima volta i due partiti religiosi, che occupano 16 seggi sui 120 del Parlamento e che dal 2015 erano stretti in una solida alleanza di potere con il Likud di Netanyahu, sono esclusi dalla coalizione. Una novità importante che potrebbe preludere nel medio termine a mutamenti nel rapporto fra religione e Stato nel paese, contenendo il potere coercitivo delle componenti ortodosse della società: forse non avremo una norma di legge che introduca finalmente il matrimonio civile nel paese, ma prassi più accomodanti circa le conversioni all’ebraismo, i diritti degli omosessuali in materia di adozioni e maternità “surrogata”, il vecchio accordo circa uno spazio egualitario di preghiera per uomini e donne al Muro del Pianto a Gerusalemme, negoziato e poi disatteso dai governi di Netanyahu.

Giorgio Gomel

fonte Osservatorio Mediterraneo Medio Oriente CeSPI 16 giugno 2021

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