Il fatto israele stato modello della destra mondiale

Facebook
Twitter

Quando cercano un modello di nazionalismo a cui rifarsi, un lavacro che le purifichi dalle loro colpe storiche, un potente richiamo all’impiego della forza e alla difesa delle tradizioni, le destre occidentali guardano all’unisono verso Israele.
Non c’è da stupirsi, dunque, se oggi esultano per il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu, acclamato dai suoi sostenitori in quanto Bibi melech Israel, cioè “Bibi re d’Israele”: dal 1996 in poi ha governato per quindici anni, dei quali 12 e mezzo consecutivi. La vittoria elettorale di martedì scorso dovrebbe garantirgli la prosecuzione del regno per altri quattro anni. E salvaguardarlo dall’esito dei processi
per corruzione in cui è imputato: i suoi alleati gli hanno già promesso una legge retroattiva ad personam. Non si tratta, però, di una cambiale in bianco. Dopo l’uscita di scena di Naftali Bennett, venuta meno la ricerca di un leader alternativo ma deciso a proseguire la medesima politica dello status quo imposto con la forza ai palestinesi dei territori occupati e agli arabi israeliani, l’esito del voto annuncia un ulteriore scivolamento a destra di Israele. Ne esce rafforzato il potere di ricatto dei partiti religiosi -il sefardita Shas e l’ashkenazita “Uniti nella Torah”- ma soprattutto s’impone, accanto al maggioritario Likud, il partito del premier, una nuova formazione dichiaratamente suprematista, “Sionismo religioso”, forte ora di ben 14 seggi alla Knesset.

Per governare, il laico Netanyahu dovrà concedere la guida di ministeri-chiave ai veri vincitori della quinta tornata elettorale in soli 42 mesi: estremisti che si sono fatti largo al grido di “morte agli arabi” negli scontri interetnici che hanno insanguinato le città miste lo scorso anno. Il più attivo fra loro, Itamar Ben Gvir, proviene dal movimento Kach del rabbino Meir Kahane, posto fuorilegge in Israele e negli Usa per le sue posizioni apertamente razziste. Ben Gvir ama ostentare la pistola che porta alla cintola e fino a poco tempo fa esponeva nel suo ufficio il ritratto di Baruch Goldstein, colui che nel 1994 da solo perpetrò il massacro di 29 palestinesi a Hebron.

Le date sono importanti, per individuare i passaggi degenerativi del nazionalismo israeliano impastato di fanatismo religioso. L’anno dopo la strage di Hebron, il 4 novembre 1995, al termine di una campagna d’odio cavalcata minacciosamente nelle piazze dallo stesso Netanyahu, venne assassinato il premier Yitzak Rabin, artefice degli accordi di pace con i palestinesi. E’ un passaggio storico cruciale, non solo perché Rabin fu ucciso da un ebreo che rivendicava di aver agito in obbedienza a una prescrizione rabbinica, ma perché l’infamia di quell’omicidio politico anziché provocare un moto di ripulsa generalizzato, favorì nel 1996 la prima vittoria elettorale di Netanyahu. E’ vero che in seguito, con Barak, con Olmert, e perfino con Sharon, vi furono ulteriori tentativi di riallacciare un dialogo con i palestinesi, ma ormai la frattura in seno alla società israeliana risultava insanabile. Il piano inclinato del nazionalismo aggressivo, culminato il 18 luglio 2018 nella proclamazione della legge fondamentale che definisce l’ebraicità dello Stato d’Israele codificando la minorità della popolazione araba, modificava nelle fondamenta la natura binazionale della dichiarazione d’indipendenza del 1948. Concedeva legittimità agli oltranzisti che oggi adombrano perfino l’eventualità di una deportazione di massa degli arabi israeliani, il 20% della popolazione, e negano a priori il diritto alla nascita di uno Stato palestinese.

Intanto la società israeliana è andata frazionandosi per compartimenti stagni, impermeabili gli uni agli altri. Gli ultraortodossi esercitano nelle loro città e nei loro quartieri una sorte di autogoverno. I laici, tra i quali prevale una cultura liberal, beneficiano degli effetti della notevole crescita economica, anche se patiscono gli effetti del carovita e della crisi del welfare, ma si limitano a delegare agli apparati di
sicurezza la loro tranquillità, disinteressandosi a soluzioni di pace che paiono loro irraggiungibili. Gli insediamenti ebraici nei territori occupati acquistano sempre maggior peso politico nella Knesset, trasformando l’aspirazione messianica in ideologia annessionistica. Le stesse azioni suicide di singoli terroristi palestinesi, nelle loro modalità, paiono dettate piuttosto da disperazione personale che dal
perseguimento di un disegno organico.

Se a tutto ciò aggiungiamo l’esplosione del fenomeno jihadista sotto forma di terrorismo islamico globale, e il sanguinoso conflitto fra sciiti e sunniti che lacera il mondo musulmano distogliendo attenzione dalla questione palestinese, diviene chiaro perché Israele sia giunto a impersonare un modello di riferimento per le destre di molti paesi, comprese quelle di matrice antisemita.

E’ l’epopea dello Stato-nazione, difensore delle sue tradizioni e baluardo esemplare contro il comune nemico islamico. E’ l’ammirazione per un apparato statale fondato sulla supremazia del comparto militare industriale, capace di investire sull’eccellenza della sua cybersecurity esportata in tutto il mondo. E’ la missione autoproclamata di Stato difensore degli ebrei non solo entro i propri confini, ma ovunque essi si
trovino.

Sono, insomma, gli ingredienti di quella ideologia sovranista che trova nella destra israeliana i suoi teorici di riferimento, come Yoram Hazony. Solo due anni fa Giorgia Meloni, accogliendolo a Roma insieme a Orbàn, promise di assumere come testo guida il libro in cui Hazony raccomandava: “Non dovremmo cedere nemmeno il più infinitesimale frammento della nostra libertà a qualsivoglia organismo straniero, o a sistemi normativi estranei non determinati dalla nostra nazione di appartenenza”. Certo, non si può dimenticare che dietro a un’affermazione del genere si riconosce la ferita irreparabile subita dal popolo ebraico nel secolo scorso. E la convinzione diffusa che ne è conseguita fra gli israeliani: al momento del bisogno, se non sapremo difenderci da soli, nessuno verrà in nostro soccorso. Ma fare di questo assunto il vessillo del nuovo sovranismo è una degenerazione tragica, un richiamo irresistibile per i nazionalisti di ogni risma. Non a caso Netanyahu mantiene ottimi rapporti personali anche con Putin e lo spazio che si appresta a concedere ai suprematisti nel suo governo suscita allarme alla Casa Bianca.

Il romanzo “I Netanyahu” di Joshua Cohen, dedicato a una disavventura americana della famiglia di Bibi, reca in esergo la citazione di Zeev Jabotinsky, l’ideologo del sionismo revisionista di cui l’eterno “re” d’Israele è cultore: “Eliminate la diaspora, o la diaspora eliminerà voi”. Anche l’ebraismo, ahimè, rischia di uscirne stravolto.

Gad Lerner

Il fatto quotidiano

 

Facebook
Twitter

Ultimo evento