Questo lungo intervento di Bruno Segre, che descrive la storia recente e i problemi di Isreaele, della Palestina e di quel pezzo di mondo, è stato pubblicato in due parti sul numero 48 e 49 de “Gli asini”: acquista i numeri e abbonati per sostenere la rivista.
illustrazione di Blutch
Sionismo: corruzione di un’idea
Per molti progressisti “sionismo” è diventata una parolaccia. Non mi stupirei, per esempio, se qualche lettore de “Gli asini” abbandonasse subito la lettura di un articolo che comincia, come farò io, difendendo l’idea del sionismo. La colpa è di chi ha reso questo concetto il contenitore di un nazionalismo scriteriato, razzista e antidemocratico, come proverò a dire fra un po’. Ma è anche colpa di chi, poco abituato ad affrontare i problemi complessi, si accontenta di ricorrere agli stereotipi e ai luoghi comuni, dimostrando poca libertà di pensiero e scarsa autonomia critica.
Il progetto sionista delle origini, nato come risposta alla giudeofobia plurisecolare dei cristiani, ha una matrice socialista fortissima e maggioritaria. Esso intendeva garantire al popolo ebraico l’indipendenza politica all’interno di uno stato nazionale democratico e laico. A dispetto della deriva fascistoide e dell’arrogante grettezza etica di chi governa oggi Israele, io sono ancora convinto della validità storica di quel progetto. E continuo a credere che esso meriti di essere portato a compimento.
Ma procediamo per gradi e proviamo, nello spazio di poche pagine, a ricostruire la storia della corruzione del progetto sionista originario.
Chi erano gli ebrei di Palestina al momento della fondazione, nel 1948, dello Stato di Israele? Piccole porzioni dell’ebraismo europeo sopravvissuto alla Shoah, ma soprattutto ebrei che vivevano lì da un paio di generazioni, seppure rappresentassero un’esigua minoranza rispetto alla popolazione araba. La prima aliyah, la prima significativa ondata migratoria di ebrei europei in Palestina, è collocabile alla fine dell’Ottocento e inizia con l’assassinio dello zar Alessandro II di Russia, al quale segue un’ondata feroce di pogrom che spinge migliaia di sottoproletari ebrei a emigrare.
Nel lasso di tempo compreso tra la fine dell’Ottocento e il 1917 (l’anno della “Dichiarazione Balfour”), in ambito ebraico va prendendo corpo un ventaglio variegato di progetti politico-culturali e di flussi migratori.
Il primo è quello dei sionisti che decidono di andare nella terra dei padri, valorizzazione più o meno consapevole di un retaggio che poco aveva a che fare, inizialmente, con la religione. I coloni radicalmente laici giunti con le prime ondate migratorie in Palestina – quando questa faceva ancora parte, come minuscola provincia, del grande impero ottomano – erano in larga misura socialisti e anarchici provenienti dalla Polonia, dalla Russia e dalla Lituania, che acquistavano terre incolte dai legittimi proprietari, arabi o turchi, allo scopo di lavorarle con le proprie braccia.
Un altro filone è quello di chi decide di emigrare negli Stati Uniti, che dà vita tra l’altro al primo sindacalismo nordamericano, animato in particolare da operai ebrei che a New York e nelle grandi città dell’East Coast lavorano soprattutto nell’industria tessile. Infine sono da annoverare coloro che nella Russia zarista (nella quale, prima della guerra 1914-‘18, era ancora concentrato il grosso degli ebrei del mondo) realizzano con successo la rivoluzione d’Ottobre. Il gruppo dirigente rivoluzionario, escluso Lenin, era composto prevalentemente da ebrei dell’Ucraina o della Russia, come Bucharin o Trotsky, per citare solo due dei nomi più famosi.
Curiosamente il mondo ebraico che nell’Europa orientale si mette in moto alla fine dell’Ottocento dà origine a tre progetti per così dire in concorrenza tra loro: uno è quello associato all’America e al trovarvi un rifugio e un lavoro sotto la spinta delle mitiche promesse dell’accoglienza e della democrazia; un altro è quello che recupera un retroterra storico tradizionale che porta verso la terra dei padri e un terzo è quello orientato alla rivoluzione dei “proletari uniti di tutto il mondo”.
Primi passi di Israele
Quando nel ‘47 era ormai chiaro che la Gran Bretagna avrebbe rinunciato all’esercizio del Mandato sulla Palestina, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò a maggioranza una risoluzione, la 181, che sanciva la spartizione di quel territorio con la susseguente creazione di due nuovi stati. Mentre la proposta incontrò il favore dei sionisti, i palestinesi e gli stati arabi circostanti si opposero esprimendo riserve, obiezioni e alla fine un sostanziale rifiuto.
Nella memoria collettiva ebraica il 1948 rappresenta un anno portentoso, il risarcimento di un’oppressione durata secoli, un riscatto avvenuto nel segno della moralità e della giustizia. Di orientamento opposto è lo stato d’animo con cui viene ricordato quello stesso periodo dagli arabi di Palestina. Per loro il 1948 fu l’anno della Nakba, della “Catastrofe” palestinese: famiglie disperse, vite spezzate, proprietà perdute, l’inizio dell’esodo umiliante di una popolazione civile di oltre settecentomila persone.
Oggi possiamo fare tutti i ragionamenti che vogliamo sul perché allora i sionisti accettarono e gli arabi rifiutarono – perché la spartizione era iniqua, perché le comunità arabe sarebbero state smembrate, ecc. – ma era il principio stesso della spartizione che andava fatto valere.
Purtroppo all’epoca le condizioni delle due realtà, delle due società che si confrontavano, quella degli ebrei e quella degli arabi di Palestina, erano di profondo squilibrio. La società ebraica aveva già compiuto un lungo percorso nel gettare le basi di una struttura statale. Quando tra il ’47 e il ‘48 ci furono il voto dell’Onu sulla spartizione, il ritiro degli inglesi e la conseguente nascita dello Stato d’Israele, gli ebrei di Palestina avevano già messo in campo un apparato di istituzioni in grado di funzionare come Stato: un sistema di partiti, un’organizzazione sindacale, una burocrazia amministrativa, un moderno apparato scolastico e accademico, la crisalide di un esercito (l’Haganah, l’organizzazione paramilitare dei gruppi di difesa dei kibbutzim, che alla nascita dello Stato si trasformarono nell’esercito d’Israele). Non altrettanto si poteva dire per gli arabi di Palestina.
All’inizio sembrò che la matrice socialista del progetto sionista potesse attecchire e dare frutto. Ho dei ricordi straordinari del primo viaggio che feci in Israele nel 1961. Le persone che incontravo mi apparivano liberi cittadini di una società egualitaria, destinata a svilupparsi secondo modalità imprevedibili. Donne e uomini non tanto preoccupati di saldare i conti con l’atroce passato recente quanto protesi a guardare in avanti, pieni di estro creativo e impegnati a costruire senza modelli precostituiti una società nuova, per sé e per i propri figli.
Questo è ciò che percepii nel mio primo contatto con gli ebrei d’Israele, anche se, come la ricerca storica ha poi dimostrato, in quegli anni erano già in corso alcuni processi involutivi e antidemocratici che esploderanno in maniera evidente dopo la guerra del ‘67. Ma è indubbio che in seguito alla nascita dello stato, nel 1948, Israele fu per una trentina d’anni governato da una classe politica capace di proporre ai cittadini un sano e solido equilibrio tra le esigenze della sicurezza e la salvaguardia dei valori democratici e laici.
È altrettanto indubbio però che di quel progetto democratico, di quell’orizzonte aperto alla speranza e proiettato verso il futuro, di quell’atmosfera di entusiasmo e di libertà, nel 2017 rimangono soltanto le memorie e le macerie.
Il primo spartiacque: la Guerra dei sei giorni
Proprio in questi primi mesi del 2017 ricorrono i cinquant’anni dalla Guerra dei sei giorni. Quel rapidissimo passaggio storico rappresenta il primo fondamentale spartiacque del progetto sionista originario. Di punto in bianco, nel giugno del ’67 l’intero territorio compreso tra il Giordano e il Mediterraneo, vale a dire la Palestina quale era uscita dal Mandato britannico, finisce sotto il controllo di Israele. La guerra del ‘67 crea sul terreno una situazione geopolitica senza precedenti, che influenzerà la classe politica israeliana innescandovi tensioni molto gravi che esploderanno in maniera eclatante con l’assassinio di Rabin.
Una vittoria fulminante, sei giorni che determinarono una sorta di ubriacatura collettiva per gli israeliani e per molti ebrei della diaspora, un’ubriacatura euforica proporzionale al timore, serpeggiante durante le settimane che precedettero lo scontro armato, che potesse verificarsi una nuova Shoah, un nuovo massacro come quello che aveva pressoché distrutto l’ebraismo europeo ai tempi della persecuzione nazista.
Quella guerra sembrava rappresentare la lotta dei deboli contro i forti, del piccolo Israele contro i “colossi coalizzati” di Egitto, Siria e Giordania. Avevo un’amica di Milano che nel ‘64 era andata a vivere in Israele e lì aveva avuto due bambini. Ricordo che nelle settimane che precedettero la guerra mi tenni con lei in contatto costante, scongiurandola di mandare in Italia almeno i bambini, se lei e il marito non se la fossero sentita di lasciare il paese.
Quindici giorni prima dello scoppio del conflitto si poteva temere che Israele fosse condannato a sparire. Soprattutto lo temevano gli ebrei della diaspora, ma nel giro di una settimana Davide sconfisse Golia e, dal punto di vista psicologico oltre che geopolitico, ci fu un ribaltamento di situazioni epocale, senza precedenti. All’indomani della vittoria i religiosi di Israele erano convinti che fosse intervenuta la mano di Dio. Ma non molto diversa fu la risposta dei non religiosi, travolti al pari dei religiosi da una ventata di attesa mistica e trionfante dell’era messianica. Non nascondo che anch’io subii allora il fascino di questo miope trionfalismo.
Cambia il vento
Mi capitò di tornare in Israele per un mese dieci anni dopo, nel 1977, proprio nella fase di passaggio dal governo dei socialisti a quello dei nazionalisti di destra: era l’anno in cui vinse le elezioni Menachem Begin, il capo del Likud dell’epoca. Le elezioni si erano tenute in maggio, io mi recai in Israele in luglio. Noleggiai un’automobile con cui potevo girare tranquillamente per tutto il paese, compresi i territori occupati. Il clima era apparentemente sereno, ma ebbi modo di rendermi conto più tardi che proprio in quei mesi erano in gioco partite fondamentali. Si era formato da poco un gruppo politico-religioso molto vigoroso, il Gush Emunim, il “nucleo dei fedeli”, che negli anni a seguire, nei territori della Palestina occupata, fu il grande artefice degli insediamenti dei coloni nazional-religiosi a orientamento messianico.
Appena arrivato a Tel Aviv cercai di mettermi in contatto con un docente di storia ebraica autore di alcuni articoli che mi avevano colpito. Questo studioso – si trattava di Yehoshua Arieli – mi fece un discorso che non dimenticai più: un discorso che prefigurava con grande lucidità quello che sarebbe successo molti anni più tardi. Prese le mosse da una dichiarazione rilasciata da Begin dopo la vittoria elettorale ad alcuni giornalisti inglesi che gli chiedevano come intendesse rapportarsi nei confronti dei territori occupati. Begin rispose che quelli non erano territori occupati, ma territori liberati. All’epoca più o meno tutta la classe politica d’Israele, destra e sinistra, andava orientandosi sulla base di simili premesse.
Da sionista quale si professava, Arieli mi confessò di osservare con profonda preoccupazione la deriva politica che andava delineandosi e di temere le conseguenze nefaste che avrebbe comportato. E oggi, leggendo quotidianamente i giornali (non quelli italiani, che vivono solo del pettegolezzo politico nostrano) non posso che dargli ragione. A questo punto si può solo sperare che qualche miracolo permetta alla società civile israeliana di avere un soprassalto di lucidità e di trovare le energie per recuperare lo spirito del progetto sionista delle origini.
Il secondo spartiacque: l’assassinio di Rabin
Nella classe politica israeliana c’è stato un uomo che aveva capito tutto e che questo soprassalto di lucidità ebbe il coraggio di imporlo all’azione politica del governo. Era un militare, si chiamava Yitzhak Rabin. Essendo un generale di grande prestigio, era tutt’altro che un tenero pacifista. Era però un uomo che aveva a cuore il futuro del paese nel quale era nato. Ebbene, quest’uomo fu assassinato da un estremista religioso ebreo, che durante il processo si difese chiamando in causa niente meno che la Bibbia e il Talmud, cioè facendo leva su alcune indicazioni della halakha, l’insieme delle norme di comportamento che gli ebrei ortodossi sono tenuti a seguire. La sua linea difensiva verteva sull’assunto che è lecito uccidere qualcuno se costui sta per compiere un omicidio. Era la folle difesa di un giovane fanatico, che sarebbe tuttavia sbagliato considerare una “mela marcia” isolata poiché era, in realtà, il braccio armato di un gruppo di potere che voleva liquidare Rabin e la sua visione dello stato.
Da militare e stratega quale era, Rabin aveva posto il suo paese di fronte a una domanda banale ma essenziale: con chi la vogliamo fare la pace se non con il nemico? A distanza di tanti anni, considero l’assassinio di Rabin “il delitto Matteotti” dello Stato d’Israele. Chi l’ha assassinato voleva in realtà eliminare una certa idea di stato e di democrazia. La morte di Rabin rappresenta la fine dell’autentico progetto sionista e la messa a nudo della drammatica situazione in cui Israele e l’intero Medio Oriente si trovano attualmente.
Chiunque in Israele abbia un minimo di memoria ricorda che coloro che hanno in mano ora il potere sono gli stessi che in quegli anni riempivano il paese di manifesti di Rabin con i baffetti di Hitler o con la kefiah di Arafat. La propaganda di quelli che allora stavano dall’altra parte, che sono poi coloro che comandano oggi, era una propaganda che delegittimava il processo di pacificazione messo in atto dagli accordi di Oslo e che indicava perciò in Rabin un traditore della patria. Nelle manifestazioni indette allora contro Rabin, il portavoce principale era Benjamin Netanyahu, che a vent’anni di distanza è il politico che regge saldamente il timone del paese.
Ariel Sharon ebbe una sorte per certi versi simile a quella di Rabin: il subire alcuni anni più tardi lo stesso tipo di scherno e d’irrisione (anche se gli fu risparmiata la morte violenta). Sia chiaro: non c’è stata una sola decisione politica di Sharon che io abbia condiviso: tranne l’ultima, quando l’anziano militare capì che bisognava almeno tentare di prefigurare agli occhi di Israele e dell’intero mondo il fatto che l’abbandono dei territori occupati potesse concretamente essere eseguito. Ne era talmente convinto che trovò le energie e il coraggio di mandare nella striscia di Gaza truppe disarmate a trascinar fuori dalle loro case migliaia di coloni armati. Il caso volle che la settimana dopo l’avvio di quelle operazioni Sharon fu colpito da un ictus gravissimo che lo ridusse in uno stato vegetativo. Molti degli ottomila coloni che egli fece allontanare dalle loro case nell’agosto 2005 continuano a maledirlo ancora oggi. Ma adesso che in Cisgiordania si sono ormai insediati poco meno di cinquecentomila coloni, non oso neppure pensare in quali termini il problema di una loro evacuazione possa essere affrontato. E tuttavia, nessun serio processo di pacificazione con i palestinesi può eludere quel problema.
Da anni Israele è nelle mani di governi che rispecchiano e amplificano gli umori delle varie espressioni politiche, anche le più estreme, della destra israeliana: una destra che è andata al potere e vi si mantiene nutrendo le paure e i complessi di un ampio spettro di gruppi provenienti dalla “periferia sociale” di Israele, identificabili nella comunità degli ebrei orientali (marcatamente islamofobi perché fuggiti dal mondo islamico), nell’elettorato nazionalista russo, in una parte degli ebrei ortodossi e nei coloni nazional-religiosi.
L’establishment politico – a partire da Netanyahu e dagli altri leader che lo hanno preceduto alla guida del paese negli ultimi quarant’anni – governa nella convinzione che sarà la sicurezza a portare la pace e non viceversa (come era nella visione di Rabin). È una classe di governo che continua a favorire in Cisgiordania l’espansione degli insediamenti e delle relative infrastrutture, come se i bulldozer, i coloni armati, le loro abitazioni e le strade lungo le quali si spostano costituissero i paletti destinati a definire le “sicure” frontiere future dello stato.
Questi governanti esaltano un’angusta religione politica su base etnica, in nome della quale mantengono il processo di pace in una situazione costante di stallo e impediscono sine die la creazione di uno stato dei palestinesi, non rendendosi conto che dietro l’angolo c’è lo spettro di uno stato binazionale, con caratteristiche proprie dell’apartheid sudafricana, ma senza le sue vie d’uscita.
Il mondo ebraico
Negli ultimi anni, come abbiamo visto, la politica d’Israele è andata orientandosi in senso sempre più marcatamente ‘tribale’. È ancora lecito ipotizzare che gli aspetti regressivi di tale deriva possano essere corretti? Le residue speranze che ciò avvenga risiedono nelle risorse di cui gli ebrei dispongono a raggio mondiale in virtù della loro ricca varietà di espressioni di vita e di cultura. Si tende spesso a pensare che Israele e la diaspora ebraica costituiscano un solido, inscindibile monolito, che siano la stessa cosa. Non è così.
Prima della Shoah, prima dell’1 settembre 1939, il grosso dell’ebraismo mondiale, sia in termini di numeri, sia dal punto di vista della rilevanza politica e culturale, risiedeva in Europa. Nella nostra storia di minoranza dispersa da generazioni, la Shoah rappresenta una svolta senza possibilità di redenzione. Il vulnus che la persecuzione antiebraica di matrice nazi-fascista ci ha inflitto non si potrà più sanare. Ciò che è rimasto del mondo ebraico in Europa è un trascurabile residuo. Spesso, per esempio, mi capita di constatare come le persone che ci guardano dal di fuori non abbiano idea di quanto pochi siamo noi ebrei italiani. Se sommiamo tutti gli ebrei iscritti a tutte le comunità in Italia, non raggiungiamo le 25mila unità.
Dove si situa oggi davvero il mondo ebraico? Dalla fine della Seconda guerra mondiale, i due poli maggiori, quelli eminenti, di aggregazione della vita culturale, economica, sociale e politica degli ebrei sono lo Stato di Israele da una parte e la grande comunità ebraica nordamericana dall’altra. I quali poli, visti da qui, attraverso le fake news che passano nei modestissimi media italiani, sembrano la stessa cosa. Si tratta al contrario di due realtà profondamente diverse, spesso in vivace, anche aspra dialettica tra loro.
Esistono ovviamente dei legami importanti, così come esiste un ristretto gruppo di tycoon americani, ebrei e non ebrei, che finanziano in Israele imprese variegate, anche le più turpi. Penso, per fare un esempio in negativo, a quell’aberrazione chiamata Makhon Hamikdash (l’“Istituto del Tempio”), un’organizzazione che, in vista della “ricostruzione” molto improbabile (se Dio vuole!) del Tempio a Gerusalemme, ossia del terzo Tempio, ha tra i suoi scopi principali quello di riprodurre gli arredi sacri e gli strumenti rituali che erano in uso nel secondo Tempio prima che i Romani lo distruggessero nel 70 dopo Cristo. L’“Istituto del Tempio” è in gran parte finanziato dagli evangelicali americani, un’ala radicale del protestantesimo USA che conta varie decine di milioni di integralisti messianici, spesso fanatici (che tra le altre cose hanno avuto il “merito” di eleggere Bush prima e Trump oggi), potentissimi dal punto di vista economico.
Gli ebrei negli Stati Uniti sono circa 6 milioni, tanti quanti sono gli ebrei che vivono in Israele. Ma il mondo ebraico nordamericano è diversissimo da quello israeliano e, sul piano culturale, è estremamente plurale al suo interno. Per molto tempo le comunità ebraiche negli Usa hanno appoggiato senza riserve ogni possibile iniziativa politica dei governi di Israele. Da qualche anno non è più così. Soprattutto i giovani della classe media con preparazione e vocazione accademica, oltre a riconoscersi nel retaggio ebraico, si riallacciano ad alcuni passaggi significativi della storia americana, come la guerra civile per l’abolizione della schiavitù, o il movimento per i diritti civili, che male si conciliano con la difesa incondizionata della politica populista, xenofoba e a evidente tendenza etnocratica dell’attuale governo israeliano.
L’ebraismo italiano
In Israele gli ebrei emigrati dall’Italia sono poche migliaia: la proposta sionista ha avuto in Italia una fortuna piuttosto modesta.
Per cogliere alcune particolarità di noi ebrei d’Italia, per comprendere la nostra specificità rispetto, per esempio, alla diaspora americana, bisogna fare qualche passo indietro. Negli ultimi cinquecento anni, la nostra minoranza si è geograficamente concentrata nell’Italia del centro-nord. Dalle regioni insulari e meridionali, infatti, ogni traccia di vita ebraica era scomparsa in seguito al bando in base al quale, nel 1492, gli spagnoli avevano scacciato tutti gli ebrei dai loro territori. Segregati poi per alcuni secoli nei ghetti (a Roma e nell’Italia del centro-nord), ne eravamo usciti attorno alla metà dell’Ottocento in seguito all’apertura dei ghetti, partecipando attivamente ai moti e alle guerre risorgimentali e diventando cittadini della “nazione Italia” parallelamente a tutti gli altri italiani (come ebbe a osservare acutamente Antonio Gramsci). I nostri antenati aderirono al processo di unificazione con enorme entusiasmo.
Noi ebrei italiani, insomma, siamo un pezzo di Italia e della sua storia. Abbiamo più o meno gli stessi pregi e difetti che caratterizzano in generale tutti gli italiani. Durante il ventennio fascista, il comportamento politico degli ebrei fu fondamentalmente identico a quello del resto della popolazione. Una parte era composta di fascisti autentici, convinti; una minoranza più “virtuosa” era antifascista, ma la massa che stava in mezzo tra questi due estremi si faceva gli affari suoi come è uso, da sempre, tra gli italiani. Dall’unificazione (1861) fino al ’38 eravamo totalmente integrati, ci sentivamo cittadini a tutti gli effetti.
Dopodiché, piuttosto improvvisamente, le leggi razziali ci hanno ricordato che eravamo ebrei. Uno shock del tutto identico a quello che sarebbe stato se un bel giorno fossero uscite delle leggi che stabilivano che i pugliesi non erano italiani in quanto appartenenti a una “razza inferiore.”
Il giocattolo, dunque, per noi si ruppe nel ’38, e per ricomporlo i problemi non sono mancati. Le leggi per la “difesa della razza” ci avevano escluso dal consorzio della società nazionale. E a quel punto tutti gli ebrei – non soltanto le vittime dirette delle strutture repressive del regime, ossia gli antifascisti di lungo corso, vissuti nella clandestinità e nella cospirazione oppure in carcere e al confino, ma anche coloro che sino alla vigilia della persecuzione si erano tenuti ai margini della vita politica, o addirittura erano rimasti fascisti – fecero blocco e, con pochissime eccezioni, si riconobbero parte organica del grande fronte antifascista, operante contro le dittature di destra in Italia e nel resto dell’Europa.
Durante la Resistenza e negli anni del dopoguerra, molti furono in Italia gli ebrei che tennero fede alla solidarietà antifascista militando nei vari partiti, in particolare in quelli della sinistra e in quelli laici che, assieme alla Democrazia Cristiana, facevano allora parte dell’“arco costituzionale”. Numerosi esponenti di spicco della minoranza ebraica contribuirono alla nascita e alla crescita dell’Italia repubblicana, partecipando alla stesura della Carta costituzionale e poi battendosi con impegno nelle principali battaglie condotte in difesa dei diritti dei lavoratori, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, dell’antirazzismo, dei diritti civili, del rispetto delle regole della convivenza civile.
Da alcuni anni, però, settori importanti dell’esiguo mondo ebraico vanno perdendo la tradizionale consonanza con la cultura della sinistra e con le forze politiche che tale cultura esprimono, mentre per converso tendono a trovare una vicinanza, un’armonia, un rapporto positivo e simpatetico con il centro-destra. Alcuni l’hanno fatto per delusione nei confronti della sinistra; altri per normale adesione culturale o d’interessi alla destra, proprio come succede fra i concittadini non ebrei; molti infine lo hanno fatto pensando di difendere gli interessi d’Israele.
A questo proposito va detto che numerosi ebrei provano fastidio per il fatto che, nel mettere a tema il conflitto mediorientale, la cultura della sinistra manifesti spesso un atteggiamento acriticamente filo-palestinese, e che in parecchie delle sue frange tenda a costringere gli ebrei a giustificarsi, quasi a scusarsi per quanto fa o non fa Israele, ed esprima nei confronti dello Stato ebraico riserve e censure che spesso celano l’antico astio per il “perfido giudeo”. Indubbiamente, quando ci rapportiamo a Israele, noi ebrei italiani tendiamo a unirci nella difesa del suo diritto a esistere come popolo e come Stato, ma quando si tratta di giudicare le politiche dei suoi governi ci interroghiamo talvolta con angoscia giungendo spesso a dividerci e a confliggere aspramente fra noi. Sullo scontro al nostro interno tra antitetiche sensibilità pesa di certo la progressiva scomparsa dei sopravvissuti e dei testimoni della persecuzione nazifascista: fenomeno che favorisce il prodursi di un’amnesia collettiva che, diffondendosi ora in Italia ben oltre il mondo ebraico, va investendo l’intera società nazionale.
Nelle nostre file non mancano figure pubbliche e di studiosi decisi a esercitare il loro ruolo di custodi della ragione e del pensiero critico, capaci di esprimere liberamente prospettive dove la democrazia e i diritti tornino a essere protagonisti, e che in tale ottica si conservano fedeli a valori che ben si conciliano con il sostegno a qualsiasi ragionevole iniziativa volta a pacificare il Vicino Oriente. Ma ben più numerosi, nella comunità ebraica italiana e nei suoi vertici istituzionali, sono ora coloro secondo i quali Israele non potrà sopravvivere se non continuando a praticare una politica “muscolare”. I paradigmi cui tutti costoro si affidano sono sostanzialmente quello anticomunista e quello antislamico, che non per caso costituiscono le stelle polari delle politiche delle destre, sia negli Stati Uniti sia in Israele.
Il peso della religione
Spesso, quando si parla di ebrei, ci si riferisce a uomini e donne che professano e praticano la religione ebraica. Ma la maggioranza degli ebrei che oggi vive nel mondo non è religioso, se non su un piano per così dire tradizionale e folclorico. Se è vero, peraltro, che la maggioranza degli ebrei non è religiosa, occorre anche aggiungere che la maggioranza degli ebrei religiosi non è ortodossa. L’ortodossia, che nell’immaginario collettivo è caratteristica predominante dell’ebraismo, è in realtà largamente minoritaria. Ciò non toglie che gli ortodossi continuino a esercitare in Israele – e indirettamente anche nella diaspora – un enorme potere politico e culturale.
A quasi settant’anni dalla nascita, Israele sconta in termini sempre più pesanti le conseguenze del “compromesso storico” concluso dal laicissimo “padre della patria” David Ben-Gurion con i partiti dell’ortodossia religiosa. A tutt’oggi Israele non ha una costituzione; il Gran Rabbinato – una sorta di vertice rabbinico che riunisce le massime autorità religiose dei due principali indirizzi del giudaismo ortodosso, sefardita e ashkenazita – gestisce in regime di monopolio matrimoni, divorzi e sepolture ebraiche, ossia svolge le lucrose funzioni generali dell’anagrafe, e soprintende all’osservanza delle norme alimentari (la kashrut) e alla vigilanza dei luoghi santi ebraici. E in tal modo invade e influenza a fondo la sfera della vita personale dei cittadini, stabilendo chi è ebreo e chi non lo è, e dispensando la cittadinanza secondo i propri esclusivi criteri, che non sembrano improntati a un approccio pluralistico.
Va anche detto che all’interno del Paese sono in corso cambiamenti demografici di notevole rilievo che, sul lungo periodo, potranno modificare radicalmente la composizione della società civile e influenzare in termini significativi le politiche dei governanti. Oltre alla massiccia immigrazione di un milione e mezzo di russi dall’ex Unione Sovietica – molti dei quali non sono ebrei e tuttavia sono stati accolti in Israele come cittadini dietro l’esibizione di un semplice certificato di matrimonio con ebrei, spesso neppure riconosciuto come valido dal Gran Rabbinato – uno dei fenomeni demografici più degni di nota è l’incremento impressionante dei haredim, gli ebrei ultra-ortodossi, che costituiscono circa il 10 per cento della popolazione totale. Secondo recenti statistiche ufficiali, presso le comunità dei haredim si registra una media di 7,6 figli per donna, quasi tre volte il tasso di natalità della popolazione complessiva; e poiché i demografi prevedono che nei prossimi decenni tale tasso si mantenga immutato, il peso specifico dei haredim, sia in àmbito socio-culturale sia a livello politico, è destinato a crescere.
L’ortodossia, pure essendo in seno all’ebraismo religioso una corrente minoritaria a raggio mondiale, nel Paese esercita uno strapotere che, con i suoi condizionamenti, gli ebrei di Israele e della diaspora – in maggioranza secolarizzati o di orientamenti religiosi non tradizionali – vivono spesso con profonda insofferenza. I religiosi – tanto i nazional-religiosi quanto i haredim – svolgono un ruolo socio-politico mai definito, impedendo un corretto rapporto tra Stato e sinagoga, invadendo sempre nuovi spazi, creando continue crisi politiche e istituzionali: alcune visibili, altre meno, ma comunque dirompenti.
Una simile situazione produce e riproduce contrasti che investono a getto continuo non solo il mondo politico ma l’amministrazione, il sistema educativo, l’esercito, l’urbanistica, la famiglia e così via, riaprendo all’interno di Israele, ma anche nella diaspora, la questione della legittimità dello stesso Stato ebraico e riproponendo l’eterna domanda identitaria del “Chi è ebreo?”
Lo Stato d’Israele si definisce “ebraico”, ma ai filoni non ortodossi dell’ebraismo (reform, conservative e reconstructionist), largamente maggioritari negli USA, le istituzioni israeliane non offrono pari opportunità d’espressione. Così, gli ebrei USA incominciano a rendersi conto che Israele è diventato, oltre che un’etnocrazia, una teocrazia fondata sull’ebraismo ortodosso, imposto ope legis, oltre che di fatto, quale religione nazionale ufficiale. Con tutta evidenza, in Israele i rapporti tra stato e religione sono molto più simili a quelli di alcuni dei paesi arabi limitrofi che non a quelli che contraddistinguono gli stati moderni a regime democratico. In Israele i rabbini delle congregazioni non ortodosse non hanno il diritto di celebrare matrimoni o funerali ma, soprattutto, le conversioni da loro operate non hanno alcun valore. In Israele non esiste il matrimonio civile; i matrimoni misti tra ebrei e non ebrei devono necessariamente celebrarsi all’estero. Molti ebrei USA, per i quali la religione può contare ancora qualcosa, vivono Israele come un paese che limita in modo intollerabile la loro libertà religiosa.
Save Israel, Stop Occupation
Altrettanto intollerabile, per chi ha a cuore il futuro di Israele, è la situazione di stallo in cui versano i territori palestinesi, sottoposti a una delle occupazioni militari più lunghe che un popolo abbia mai subito in epoca moderna da parte di un altro popolo.
“SISO”, Save Israel, Stop the Occupation (ovvero: salviamo Israele, blocchiamo l’occupazione) è la sigla di una campagna promossa in Israele e indirizzata al mondo ebraico, per fare sì che la diaspora, precipuamente quella nordamericana, non sia spettatrice indifferente e inefficace di quanto accade in Israele ma unisca voce e azione a quella dei promotori israeliani per puntare a una pace negoziata tra Israele e i palestinesi.
A Daniel Bar-Tal, docente di psicologia politica all’Università di Tel Aviv e ideatore della campagna, si sono affiancate nel 2016 cinquecento personalità israeliane – accademici, ex diplomatici, parlamentari, scrittori, artisti, ex alti ufficiali dell’esercito e dei servizi – che, in vista del ‘giubileo’ della Guerra dei sei giorni, nel giugno 2017, hanno lanciato un appello agli ebrei del mondo intitolato “Se amate Israele, il silenzio non è più un’opzione possibile”. Gli autori dell’appello (la lista dei firmatari si apre con i tre nomi di David Grossman, Amos Oz e Achinoam Nini, in arte Noa) dichiaravano fra l’altro: “La situazione attuale è disastrosa. Il protrarsi dell’occupazione opprime i palestinesi e alimenta un ciclo ininterrotto di spargimento di sangue. Corrompe le fondamenta morali e democratiche dello Stato di Israele e danneggia la sua posizione nella comunità delle nazioni. La nostra migliore speranza per il futuro – il tragitto più sicuro verso la sicurezza, la prosperità e la pace – risiede in una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese che conduca alla creazione di uno stato palestinese indipendente accanto e in rapporti di buon vicinato con lo Stato di Israele. Facciamo appello agli ebrei nel mondo intero perché si uniscano a noi israeliani in un’azione coordinata per porre fine all’occupazione e costruire un futuro nuovo per la salvezza dello Stato di Israele e delle generazioni future.”
È chiaro che l’obiettivo di SISO era e rimane quello di evitare che il perdurare dell’occupazione sfoci di fatto nella nascita di uno stato binazionale nel quale i palestinesi diventerebbero rapidamente prevalenti in termini demografici, ma sarebbero ignobilmente privati d’ogni diritto. Trascorsi due anni dal lancio della campagna, all’inizio dello scorso settembre, cioè alla vigilia di Rosh haShanah (il capodanno ebraico), Bar-Tal ha scritto una lettera aperta ai membri di SISO sparsi nei più lontani paesi. Con essa l’illustre cattedratico non soltanto intende offrire una spregiudicata valutazione delle iniziative promosse dal movimento in quindici città importanti delle due Americhe, d’Europa, dell’Australia e del Sud-Africa, ma parla anche del difficile futuro dell’iniziativa, senza prospettare improbabili successi.
Con grande lucidità, Bar-Tal riconosce che le pressioni esercitate nell’arco di due anni dai sostenitori di SISO su varie ambasciate e consolati israeliani non sono riuscite a modificare in alcun modo gli orientamenti del governo di Israele. Tale governo, scrive Bar-Tal, “ha impresso in ogni aspetto della vita del paese una drammatica accelerazione a politiche antidemocratiche: ponendo limiti alla libertà d’espressione, avviando pratiche di indottrinamento politico-religioso all’interno del sistema scolastico, promovendo una legislazione antidemocratica, esponendo sistematicamente gli israeliani “liberal-colombe” al pubblico biasimo, perseguitando le organizzazioni che difendono i diritti umani, praticando il razzismo e l’oppressione della popolazione palestinese sottoposta all’occupazione. Israele è oggi un paese governato da estremisti messianici che si sono infiltrati in ogni ganglio istituzionale della società. Siamo i testimoni del rapido sviluppo di un nazionalismo di tipo fascista, che ridefinisce apertamente in termini fascisti l’essenza stessa del sionismo.”
Nel volgere lo sguardo al futuro, Bar-Tal pensa che la campagna SISO richieda d’essere riformulata nelle finalità, nella struttura e nelle iniziative. Il nucleo dei promotori israeliani non potrà non continuare a fare parte di SISO ma d’ora in poi, secondo Bar-Tal, la leadership e la gestione del movimento dovrà passare in mano a persone e organizzazioni della diaspora.
Due stati per due popoli?
Non è certamente un caso che questa proposta veda la luce proprio in una fase storica nella quale la parte minoritaria della società israeliana di cui Bar-Tal è un’eminente espressione assiste con angoscia al fatto che (come ha affermato A.B.Yehoshua in un recente colloquio con Wlodek Goldkorn) “oggi una soluzione di due Stati non è più possibile […] non è più possibile sradicare i coloni, non c’è oggi un’autorità in grado di costringerli a lasciare le terre che hanno rubato.”
A lungo e con convinzione ho sostenuto che, per portare a compimento il progetto sionista, occorreva che nascesse uno Stato dei palestinesi. Il brandello di Vicino Oriente nel quale i sionisti sono andati realizzando il loro progetto non è situato nel deserto. È una terra abitata da un altro popolo che esige di autodeterminarsi. Ignorare tutto ciò significa per Israele votarsi al suicidio. Ma sono molti in Israele gli intellettuali – non soltanto A.B.Yehoshua – che danno ormai per morta e sepolta l’ipotesi dei due stati. Siamo allo sbriciolamento del sogno sionista?
Con ogni probabilità è storicamente corretto riconoscere che l’assassinio di Rabin ha rappresentato l’apice dello scontro tra due antitetiche visioni: quella di chi sostiene, d’accordo con Rabin, che la pace è fondamentale per la stessa sopravvivenza di Israele, e che va fatta ovviamente con il nemico, e quella di chi ritiene, d’accordo con l’autore dell’assassinio e con i suoi mandanti, che la sicurezza valga di più e venga prima della pace. Questo secondo orientamento sembra ormai decisamente prevalere, tanto più in un frangente storico come l’attuale, in cui sulla massima poltrona degli USA siede Ronald Trump, un presidente che con Benjamin Netanyahu condivide il vizio di individuare nemici, inseguire i fantasmi di inesistenti complotti, suscitare la paura e soffiare sul fuoco dell’odio per creare e alimentare conflitti.
La pace è laica o non è
Ognuno di noi si porta dietro un retroterra fatto di abitudini, patrimoni culturali e, in alcuni casi, appartenenze religiose, e nessuno ha il diritto di chiedere a qualcun altro di rinunciarvi. Però al giorno d’oggi quello che conta non è il dimostrare di mantenerci fedeli al nostro specifico retroterra, ma il farci carico di progettare un futuro di vivibilità che valga per noi e per tutti gli altri. Il punto non è tanto quello di trovare per forza una base, un terreno comune e quindi puntare a una sorta di sincretismo delle culture e delle religioni, quanto piuttosto quello di trarre ciascuno dal proprio retroterra indicazioni, idee, valori che aiutino a elaborare in comune progetti politici validi per tutti. Non è tanto con il dialogo tra esponenti di fedi diverse che si trasforma il mondo. Si trasforma il mondo mantenendo ciascuno il proprio retroterra e impegnandosi tra diversi a compiere assieme operazioni di cui ciascuno riconosca la validità.
Il fatto di essere un ebreo non religioso mi abilita a prendere le mosse dalla mia tradizione. Al suo interno, all’interno dei suoi “sacri testi” ritrovo spunti che consentono ad autorevoli esegeti di attribuire al popolo ebraico, al suo patrimonio culturale, alla sua storia passata, presente e futura i caratteri dell’eccezionalità. L’esasperazione di questo eccezionalismo porta alla negazione della possibilità di collaborare con gli altri. Nello stesso tempo, però, all’interno del retaggio tradizionale biblico e talmudico ritrovo filoni di pensiero che sono di tutt’altra natura, che mettono l’eccezionalità fra parentesi per dare rilievo a elementi universalistici. Ogni dialogo e ogni tentativo di costruire progetti comuni saranno possibili soltanto se prevarrà questo secondo aspetto, nella consapevolezza che non si perde niente di sé frequentando il giardino dell’altro.
Ripongo la mia speranza nel fatto che gruppi consensuali e cooperanti di fedeli delle più diverse appartenenze, gruppi comprensivi, perché no, anche di eventuali “infedeli”, sappiano dare vita a forme nuove di spiritualità, ponendosi alcuni obiettivi comuni attorno ai quali unire le loro energie: ridurre il numero delle persone in condizione di povertà, lottare con lucidità ed efficacia contro le sue cause reali, costruire spazi di educazione di qualità, combattere la corruzione.
Riusciremo a chiedere alle religioni di rinunciare alla propria eccezionalità in vista di questi scopi?
Una stagione penultima
Dopo Hiroshima sappiamo che l’umanità è in grado di annientare se stessa non una ma mille volte. Abbiamo costruito mezzi di autodistruzione tali per cui o ci rendiamo conto che siamo tutti sulla stessa fragilissima barca, oppure la stirpe dell’uomo farà harakiri.
Terminata la guerra fredda con la fine dell’Unione Sovietica, tramontati gli anni della “deterrenza reciproca”, della mutua minaccia di apocalisse nucleare, alcuni veggenti ubriachi hanno incominciato a dire che il mondo sarebbe andato tutto assieme verso la democrazia e la pace, mentre altri profetizzavano che sarebbe iniziato un conflitto di civiltà senza precedenti. Due facce della stessa distorta e totalitaria medaglia. Fino a quando non esploderà la pace con la “p” maiuscola (per chi ci crede), il mondo continuerà a reggersi soltanto in virtù dell’equilibrio tra le varie potenze presenti sulla scena. Il giorno in cui qualche leader potente e pazzo si riterrà illusoriamente in grado di giocarsi con successo la partita finale, costui innescherà un meccanismo capace di porre fine all’umanità.
Non faccio professione di futurologia, ma sono profondamente toccato da molte delle riflessioni che Günther Anders dedicò a suo tempo alla bomba di Hiroshima e alle sue possibili conseguenze. La tesi di fondo del suo L’uomo è antiquato è che le armi nucleari abbiano reso drammaticamente evidente la sproporzione che esiste fra le colossali potenzialità tecnologiche dell’uomo e la miseria delle sue capacità immaginative e morali.
Alla luce di questa consapevolezza, riporto in conclusione il discorso su Israele e Palestina per domandare e domandarmi che senso abbia lo scannarsi per quelle quattro pietre che, unitamente ad altri più seri motivi del contendere, rendono tanto arduo il cammino verso la pace. Chi se ne importa della spianata del Tempio, chi se ne importa del Muro occidentale comunemente noto come Muro del pianto, che ce ne facciamo delle moschee, delle chiese, del Santo Sepolcro? Nel nostro complessissimo procedere verso un futuro colmo di incertezze, non sarebbe tempo di finirla di scannarci per questi simboli la cui venerazione, assieme a quella del territorio, era considerata dal grande Yeshayahu Leibowitz una forma di vera e proprio idolatria? Anche il tema della “memoria” è fondamentale ma, proprio nel rispetto della memoria, non sarebbe ora che smettessimo di parlare e agire con la testa rivolta all’indietro, rivangando il passato e strumentalizzandolo senza pudore per pure finalità politiche?
Tutti quei sassi sui quali si commuove mezzo mondo – ebrei, cristiani e musulmani – li renderei volentieri innocui facendone un ideale grande museo. La vita di un bambino, che sia ebreo, arabo, buddista o figlio di uno sciamano, vale più di tutta quella cianfrusaglia sulla quale ci stiamo sbranando da generazioni. È ora di finirla. Soprattutto in ragione del fatto che il mondo, per chi non se ne fosse accorto, è una barca che sta affondando, e su quella barca stiamo navigando tutti insieme.
di Bruno Segre. Incontro con Luigi Monti
fonte : Gli asini