Una radiografia degli umori e atteggiamenti degli ebrei italiani riguardo a Israele non è semplice. E’ un esercizio che manca di rigore scientifico. Non esistono, infatti, statistiche o sondaggi di opinione affidabili sul tema.
Non vi è d’altra parte una posizione unitaria dell’ebraismo italiano, come tale, su questo così come su altri argomenti. Questo discende, in primis, dalla tradizione pluralistica, antidogmatica, tipica del modo di essere degli ebrei; ma anche dal fatto che nel caso specifico dell’Italia gli ebrei italiani si sono organizzati storicamente in comunità che sono formazioni amministrative erogatrici di servizi – il culto, la scuola, l’educazione informale, il sostegno agli indigenti e agli anziani, ecc. – e non organismi politici.
Le comunità hanno sì un assetto di democrazia rappresentativa: sono rette da consigli eletti dagli iscritti (appena 24.000 in toto), ma il grado di partecipazione al voto è basso (poco più del 20 per cento a Roma, maggiore nelle comunità più piccole), il che ne inficia in qualche misura la rappresentatività. Le comunità sono poi federate nell’Unione delle comunità ebraiche italiane (www.ucei.it), retta da un Consiglio eletto da un congresso e che ne orienta l’attività sulla base delle mozioni approvate che concernono una varietà di temi – educativi, religiosi, di servizi culturali e sociali, di conservazione dei beni culturali ebraici, di rapporto con lo Stato per quanto riguarda la laicità dello stesso e della scuola pubblica, i diritti civili delle minoranze – e anche, ovviamente, le relazioni con Israele. Il testo di quelle mozioni, così come le deliberazioni del Consiglio e le dichiarazioni rese dal suo Presidente in particolari circostanze, rappresentano un punto di equilibrio e di coagulo tra opinioni plurali e diverse. Ad esse, per loro natura e per le ragioni ricordate piuttosto generali nei contenuti, ci si può rifare per enucleare posizioni condivise, almeno sui grandi principi, dagli ebrei italiani nelle loro espressioni istituzionali.
Altre indicazioni sul dibattito nel mondo ebraico italiano si possono attingere dalle riviste ebraiche: in primis Pagine ebraiche (mensile nazionale, con sue appendici quotidiane e settimanali on-line), Shalom (romano, in genere assai apologetico verso Israele e polemicamente avverso ai suoi critici), Ha-keillah (torinese, di taglio più colto, politicamente progressista, spesso critico nei confronti di Israele), Keshet (milanese, organo di dibattito di un gruppo di ebrei laico – liberali, molto aperto al confronto interculturale).
Infine vi sono le attività pubbliche di organismi e associazioni volontarie. Ne ricordo brevemente alcuni.
La Federazione Sionistica italiana propugna gli ideali del sionismo, dell’emigrazione ebraica in Israele e di legami stretti tra il mondo ebraico della Diaspora e Israele, ivi incluso il sostegno ideale, politico e finanziario ad esso.
Il Gruppo Martin Buber-Ebrei per la pace di Roma, con altri analoghi gruppi di matrice progressista a Milano, Torino, Venezia, muovendo dalla premessa dell’esistenza di diritti nazionali di pari dignità dei popoli israeliano e palestinese, della necessità di una soluzione negoziata del conflitto sulla base del principio di “Due stati per due popoli” e ,infine, della preoccupazione per l’incrudirsi della società israeliana, i limiti alla sua democrazia e la marea montante di un razzismo anti-arabo, promuove incontri, seminari di studio e altre iniziative di dialogo fra israeliani e palestinesi, ebrei e arabi attivi soprattutto in ONG e movimenti della società civile delle due parti.
Questa istanze sono comuni a JCall Europe (www.jcall.eu, un’associazione di ebrei di più paesi europei fondata nel 2010 e dedita al sostegno ad una soluzione “a due stati “ del conflitto israelo-palestinese ; una sezione di JCall è da anni attiva in Italia (molto materiale è disponibile sul sito).
Ricorrono proprio in questo periodo i 70 anni della risoluzione delle Nazioni Unite che nel novembre 1947 decise la spartizione di quella piccola terra contesa – Palestina o Eretz Israel – in due stati, l’uno ebraico e l’altro arabo. Il primo esiste come stato indipendente dal maggio 1948, pur senza confini sicuri e riconosciuti e nell’ostinata opposizione di larga parte del mondo arabo-islamico; il secondo ancora non c’è come stato sovrano. Nel giugno scorso si sono compiuti 50 anni dalla Guerra dei sei giorni che Israele combatté contro gli stati arabi coalizzati in un’aggressione che poteva essere esiziale per le sorti del paese. Iniziò allora un regime militare di occupazione della Cisgiordania e di Gaza (il Sinai fu restituito alla sovranità egiziana in virtù di un trattato di pace del 1979 ; dalla striscia di Gaza, Israele si ritirò unilateralmente nell’estate 2005).
Se non si giunge a un accordo sui confini, gli insediamenti, lo status di Gerusalemme, la stessa nozione di “due stati per due popoli” affermatisi dagli anni ’80 e con maggiore forza dal trattato di Oslo del ’93, rischia di evaporare nel mondo onirico del mito. Nel frangente attuale, il conflitto israelo-palestinese è quasi “relegato” in secondo ordine nell’attenzione dei policy makers e dell’opinione pubblica in Italia e in Europa dalla disgregazione del Medio Oriente, il terrorismo islamista, gli orrori degli omicidi di massa in Siria ed Irak, il cataclisma politico e umanitario che investe la regione, ma resta una questione irrisolta. Ritenere però che il conflitto fra sia oggi poco rilevante per le parti in causa e per il resto del mondo e che lo status quo possa essere sostenuto indefinitamente è un errore. La convinzione prevalente in Israele che il conflitto possa essere “gestito” in forme a “bassa intensità”, senza necessità di risolverlo, è illusoria, così come l’idea che nel disordine regionale convenga a Israele non assumere un’iniziativa di pace e attendere gli eventi. I costi umani e materiali della “non pace” sono infatti enormi, come attestano gli orrori della guerra di Gaza del 2014, le aggressioni a colpi di coltello e fucile che da due anni hanno colpito a ritmi alterni le strade di Israele e e dei territori palestinesi, la minaccia crescente di un degrado della democrazia e della stessa convivenza fra arabi ed ebrei in Israele.
La storia del popolo ebraico, in quanto popolo disperso fra gli altri, è stata segnata dall’utopia di fondare una civiltà senza stato. Ma dopo l’orrore del nazismo esso ha dovuto assimilare gli strumenti del potere statuale, la politica, la forza delle armi. Ha esercitato il suo “diritto al ritorno” nella terra di Israele molto tardi, dopo grandi esitazioni e laceranti fratture al suo interno fra sionisti, non sionisti e antisionisti, e si è risolto ad edificare uno stato sovrano solo nel pieno della catastrofe immane del genocidio.
Si è così realizzato, almeno in parte, l’obiettivo storico del sionismo come movimento di emancipazione nazionale degli ebrei: un luogo, nella terra di Israele, o piuttosto su una frazione di essa, secondo l’idea della spartizione di Eretz Israel o della Palestina, (ovvero, nel moderno lessico della politica e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, di “due popoli, due stati”), dove gli ebrei fossero maggioranza, potessero vivere in pace e sicurezza, diventassero un popolo “normale”. Tale aspirazione si è attuata solo in parte, in quanto la normalità della pace, della sicurezza, dell’integrazione nella regione è ancora lontana.
Uno stato degli ebrei o per gli ebrei non significa di per sé sicurezza fisica per i suoi abitanti né la rimozione della condizione ebraica di precarietà e angoscia. Anzi il diritto di Israele a esistere come stato accettato nella sua integrità e sicurezza nel Medio Oriente è oggi ancora messo in forse.
Una nazione forte della sua straripante supremazia militare, ma anche debole per l’angoscia che il perdurare della guerra e della violenza terroristica incute nel paese. Una nazione che è occupante, ma anche assediata, che dispone di una vasta potenza bellica, ma con un sottofondo di fragilità e solitudine, come il celebre scrittore israeliano David Grossman ben descriveva in un suo discorso al Festival delle Letterature a Roma qualche anno fa e in altri suoi scritti : una nazione di rifugiati e di immigrati, figlia di una storia di persecuzioni ed esilio il cui diritto all’esistenza è stato per anni rigettato dal mondo arabo-islamico.
Oggi vi è, nel concreto esistere degli ebrei nel mondo, una bipolarità: Diaspora e Israele. Questa dualità non è scevra da conflitti, ma offre agli ebrei una scelta possibile tra l’integrazione nelle società occidentali, in cui essi vivono – circa 7 milioni o poco più, limitati ormai alle Americhe e all’Europa, e che si evolvono pur con fatica verso forme multiculturali e un’identità politico-nazionale nello stato di Israele (dove risiedono oggi circa 6,5 milioni di ebrei insieme a circa 2 milioni di non ebrei, prevalentemente arabi mussulmani).
Ritengo che la dualità tra Diaspora e Israele, la biforcazione tra le due “famiglie” del popolo ebraico, siano destinate ad accentuarsi con il tempo, tanto più quanto più Israele diventerà uno stato “normale”, con eguali diritti per i suoi cittadini e pienamente integrato in un Medio Oriente pacificato. Divergono, infatti, gli interessi oggettivi di Israele, dove gli ebrei vivono un’esistenza nazionale indipendente sotto un governo “ebraico”, che persegue gli interessi nazionali di uno stato sovrano, e della Diaspora, dove gli ebrei sono cittadini di altri stati, alle cui leggi rispondono, alla cui vita civile e politica partecipano, pur mantenendo un legame affettivo-culturale con la terra e lo stato di Israele.
Ma non è questa la condizione dell’oggi, in cui l’esistenza di Israele nella regione come stato in pace con i suoi vicini è ancora in pericolo, e forte il sentimento di solidarietà che questo pertanto alimenta negli ebrei del mondo. Israele è stato ancora in anni recenti il luogo fisico di rifugio dalle persecuzioni e dal risorgere di ondate di antisemitismo in Argentina, Iran, Etiopia, nei paesi dell’ex Unione Sovietica, di recente in Francia e resta anche solo simbolicamente tale per buona parte degli ebrei del mondo.
Israele pretende talora di rappresentare gli ebrei nella loro totalità, di difenderne i loro interessi e ritiene spesso le opinioni della Diaspora del tutto irrilevanti : è una posizione inaccettabile. E’ indubbio però che gli atti di Israele si riverberano oggettivamente, in maniera diretta o indiretta, sugli ebrei nel mondo e che quindi esso non può prescindere da tali effetti nel modulare le sue scelte politiche.
Il mondo ebraico d’altra parte in Italia, in Europa, in altri paesi è tutt’altro che un soggetto unico e monolitico, percorso come è da forti diversità di identità religiosa, culturale e politica. D’altra parte una cosa è l’ebraismo, se con tale termine intendiamo un corpus di norme e pratiche rituali codificate nel corso dei secoli e tramandate da generazioni attraverso i testi e la trasmissione orale ; un’altra cosa , e assai variegata e complessa, sono gli ebrei : in parte popolo, comunità, cultura, per alcuni un vago senso di appartenenza, un insieme impreciso di reminiscenze e legami familiari. Nel rapporto con Israele, gli ebrei sono uniti nella difesa del suo diritto di esistere come popolo e come stato, in pace e sicurezza, ma si interrogano angosciosamente e spesso si dividono aspramente circa le azioni dei suoi governi.
Questo pluralismo di opinioni è un valore essenziale da preservare. E’ importante liberarsi della falsa idea che lottare in difesa di Israele o contro l’antisemitismo esiga il sostegno acritico, indifferenziato alle scelte dei suoi governi. In molti ebrei vi è un istinto difensivo a negare a sé stessi che Israele sia colpevole di errori e malefatte nel conflitto che lo oppone ai palestinesi. Questa posizione – che io ritengo sbagliata– trova un substrato psicologico nella memoria della persecuzione e nel risorgere odierno dell’antisemitismo. E’ come se lo status di vittime o di eredi di vittime conferisse di per sé un senso di “immunità” al male, di superiorità morale; come se la moralità fosse un attributo naturale che viene da quella condizione storica di sofferenza, invece di una conquista quotidiana con azioni concrete.
Ritengo, invece che, gli ebrei della Diaspora, pur non essendo cittadini di Israele e votanti nel paese, abbiano il diritto-dovere di esprimere il loro dissenso allorché ritengono che la politica di Israele sia sbagliata o autodistruttiva per il futuro stesso del paese. E’ un atteggiamento che unisce rassicurazione e critica: rassicurazione al popolo e allo stato di Israele della solidarietà fattiva della Diaspora, del sostegno al diritto di Israele all’integrità e alla sicurezza; critica agli atti dei suoi governi, quando il rifiuto di un compromesso con i palestinesi e di riconoscerne i diritti lesi di popolo, il persistere di una pesante occupazione militare lasciano presagire un futuro di perpetuo conflitto tra i due popoli.
Giorgio Gomel