JCall in Israele e Palestina : un seminario itinerante, discutendo del conflitto

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Come già  nel 2013,  circa 50 ebrei di più paesi d’Europa in viaggio fra Israele e i territori, per dieci giorni densi di visite e incontri, ansiosi di ascoltare voci, comprendere opinioni e inquietudini, dibattere circa le prospettive di ripresa dei negoziati fra le parti, partecipare,  solidali con ONG e movimenti della società  civile,  ad azioni sul terreno. Quest’anno inoltre, nel ricorrere dei 50 anni della guerra del ’67 e dell’inizio dell’occupazione, vi era un’urgenza particolare : essere, in quanto ebrei della Diaspora europea, vicini agli  animatori della campagna SISO – Save Israel, stop the occupation -, promossa dall’Appello di 500 israeliani agli ebrei del mondo [1] in una comune  battaglia delle idee che ispira la nostra azione nelle comunità ebraiche, nonché nelle opinioni pubbliche e nei rapporti con i governi dei nostri paesi.

 

  1. Due stati, ancora possibile ?

 

Un sabato sera a Tel Aviv incontriamo A.B. Yehoshua, sempre arguto, bonariamente polemico e irriverente. Ci ripete quanto già espresso in recenti interviste : la presenza di circa 600.000 israeliani fra Gerusalemme est e la Cisgiordania, la stessa topografia degli insediamenti così intrecciata con le località palestinesi, gli ostacoli enormi allo sgombero delle colonie, il timore di una quasi “guerra civile” che scuota e sconvolga Israele rendono molto difficile la spartizione della terra contesa come voluto dal paradigma  “a due stati” che domina la scena politica dagli anni ’80 e soprattutto dagli anni ’90 con gli accordi di Oslo. Come soluzione forse transitoria occorre alleviare le condizioni di oppressione  dei circa 100.000 palestinesi abitanti nella Area C – circa il 60 % della Cisgiordania, sotto il controllo pieno  di Israele – e degli oltre 300.000 residenti arabi  di Gerusalemme est accordando loro diritti  di cittadinanza.

Altri sostengono che, pur nel rispetto del principio di “due stati sovrani per due popoli” lungo i confini pre-67, il paradigma, dominante negli ultimi 20-30 anni,  della separazione fra israeliani e palestinesi contraddice geografia dei luoghi e demografia – che vedono le due popolazioni frammiste sullo stesso territorio – nonché il legame affettivo-spirituale di ambedue i popoli con la terra. Propongono quindi di passare a un modello “confederale” in cui israeliani e palestinesi, pur rispettivamente cittadini dei loro stati ed elettori dei  propri Parlamenti, godano di libertà di movimento e di residenza in un’unica “patria” comune. E’ un’ipotesi seduttiva,  stretta fra il realismo dei fatti  sul campo che spingono verso un esito del genere e l’utopia del ritenere che i coloni  siano disposti ad alterare drasticamente  il loro stile di vita, aprendo le loro comunità, accettando di essere soggetti alla sovranità palestinese, senza la protezione dell’esercito e d’altra parte che gli israeliani accettino l’ingresso ancorchè graduale di rifugiati palestinesi sul territorio di Israele[2].

Insomma, l’interrogativo preminente per la possibilità dei “due stati” riguarda i coloni e il loro atteggiamento. Gli assertori più coerenti dei due stati, dagli accordi di Ginevra del 2003 alle trattative fra Olmert e Abu Mazen fino alla mediazione appassionata di Kerry del 2014, insistono sul fatto che circa metà dei 120 insediamenti sono piccoli e remoti  (in totale circa 30.000 abitanti), in altri 50 risiedono circa 100.000 coloni. Restano 15 insediamenti, detti, nel linguaggio degli addetti ai lavori “settlement blocs”, in un triangolo compreso fra Modiin Illit a nord di Gerusalemme, Maale Adumim a est e Gush Etzion a sud, dove risiedono oltre 400.000 israeliani (l’80 per cento di coloro che vivono oltre la Linea verde pre-67). La superficie di questi occupa circa il 4 % della Cisgiordania e uno scambio paritario  in cui Israele cederebbe  suoi territori vicini alla striscia di Gaza o nel sud vicino al Mar Morto consentirebbe di incorporare quell’80% , e di evacuare gli altri 130.000  con il favore di  adeguati indennizzi economici.

Una posizione affine è avanzata da Commanders for Israel’s security – un’associazione di ex generali  dell’esercito,  Mossad e Shabak – che ci ha esposto in un incontro  Michel Maayan   , ex  alto dirigente  del Mossad. [3] Riconoscendo che un accordo di pace non è oggi possibile per la debolezza e le divisioni in seno al mondo palestinese, il settarismo ideologico di Hamas, la frantumazione degli stati nel Medio Oriente, essi ritengono che sia necessaria una fase transitoria  che garantisca la sicurezza di Israele e consenta l’affermarsi nel tempo di un clima di fiducia che prepari un accordo di pace. L’annessione fra il 3 e il 4% della Cisgiordania con scambio di territori, il ritiro dell’esercito e lo sgombero dei circa 130.000 coloni saranno rinviati  al momento in cui si giungerà a quell’ accordo. Nel frattempo Israele dovrebbe  accettare  l’offerta di pace della Lega araba e la convergenza di interessi con il mondo sunnita contro l’espansionismo dell’Iran e la minaccia dell’ISIS;   dichiarare di non nutrire pretese territoriali ad est della barriera, interrompere ogni attività di costruzione nelle colonie in quell’area  e soprattutto consentire lo sviluppo di attività edilizia ed economica nell’area C della Cisgiordania così vitale per i palestinesi che vi abitano.

 

  1. I Palestinesi

 

A Ramallah negli uffici dell’OLP incontriamo Nabil Shaat, uno dei principali negoziatori di Camp David, Taba, Annapolis, e Muhammad Al-Madani, capo del comitato per i rapporti con la società israeliana. Si discute dei modi in cui l’ANP possa influire sull’opinione pubblica in Israele,  in particolare di quei vasti segmenti della stessa rassegnati all’ineluttabilità del conflitto, scettici circa la possibilità di una ripresa della trattativa o convinti, come la retorica della destra agita da sempre, che non vi sia tra i palestinesi un “partner” negoziale.  Afferma Shaat : un assetto a “due stati” in pace e buon vicinato è vitale per il futuro della Palestina ma anche di Israele, ma vi è fra gli israeliani una corrente annessionista via via più forte che trae alimento dall’ideologia  nazional-religiosa che rifiuta il principio della spartizione. D’altra parte sondaggi recenti[4] mostrano che soltanto il 44% dei palestinesi sostiene una soluzione a “due stati”, mentre ben il 36 mira ad uno stato unico con pari diritti per i suoi cittadini. Il 71 % non ritiene che vi sarà uno stato di Palestina sovrano entro i prossimi cinque anni. I palestinesi intervistati, disillusi dai fallimenti dell’ANP nel negoziato con Israele, restano scettici circa la ripresa di trattative bilaterali con Israele e optano per   forme di resistenza non violenta all’occupante unite ad un’azione diplomatica volta a “internazionalizzare” il conflitto (ONU, Corte penale internazionale, ecc.). Secondo Shaat,  per giungere a un accordo Israele dovrebbe accettare l’offerta di pace e di normali rapporti  avanzata dalla Lega Araba anni fa : in  un contesto regionale di pace  i  palestinesi potrebbero godere di  un sostegno  economico   soprattutto per la riabilitazione dei rifugiati e  Israele di  garanzie di sicurezza strategica di cui necessita in cambio del ritiro dai territori   in un Medio Oriente scosso dalla frantumazione degli stati. L’ANP  sostiene la non-violenza, ma il permanere dell’occupazione e delle vessazioni quotidiane che ne derivano  (900.000 palestinesi hanno  vissuto   periodi di  detenzione nelle carceri d’Israele dal ’67 ad oggi) è un  detonatore  costante   di violenza;  Hamas, che  in un suo  recente documento malgrado alcune ambigue aperture  esita a scegliere   l’opzione della non violenza, perderà consensi nelle eventuali elezioni qualora si giungesse ad un accordo di pace che sarebbe condiviso da larga parte dei palestinesi elettori.

 

  1. L’opinione pubblica in Israele

 

Inchieste d’opinione che si susseguono descrivono un quadro complicato ma la cui lettura è essenziale in quanto data l’enorme asimmetria di potere fra le due parti in lotta quanto accade all’interno di Israele , nella società e nella  classe politica,  è cruciale per le sorti del conflitto. Una minoranza di ebrei israeliani – Alon Liel, ex Direttore del ministero degli Esteri e tra i promotori della campagna SISO, la stima in poco più del 20 % –  ritiene urgente porre fine all’occupazione ed è disposta ad agire contro lo status quo e in difesa della democrazia nel paese lesa dall’offensiva di sapore mccartista della destra contro i media, la giustizia, l’accademia, le istituzioni culturali,  le ONG. Una minoranza più ampia predica l’annessione dei territori  e cela con ambiguità lessicale la sorte dei palestinesi che vi abitano : saranno annessi anche essi ma senza diritti civili e politici,  oppure espulsi, oppure spinti con lusinghe economiche ad emigrare, ed emigrare dove ?  La maggioranza fluttuante  ammette  che  vi sia un prezzo da pagare per la pace , ma vuole che quel prezzo sia il minimo possibile, cioè che Israele mantenga il controllo sul massimo di territorio e conceda il minimo dei diritti ai palestinesi che resteranno sotto occupazione.  Per un complesso di ragioni – la separazione profonda fra le due società, la percezione prevalente in Israele dei palestinesi come il nemico omicida e ingrato, che non merita fiducia né diritti di un popolo, la valutazione errata dei costi materiali ed umani  del conflitto da un lato e dei dividendi della pace dall’altro, l’illusione che lo status quo possa essere sostenuto indefinitamente, il sentimento di insicurezza connesso con il ritenere  che il conflitto arabo-ebraico sia un elemento permanente, quasi esistenziale della condizione di Israele –  per larga parte degli israeliani il rischio della “pace” con i suoi benefici incerti e lontani nel tempo eccede il costo  della “non pace”, di una normalità in fondo tollerabile, un’economia florida, una società vibrante, nonostante l’irrompere ricorrente della violenza e il degrado della democrazia nel paese.

Come ci ha confermato Stav Shaffir, giovane parlamentare laburista in un incontro alla Knesset, il 55 % degli israeliani (il 50% fra gli ebrei, l’80% fra gli arabi di Israele) appoggia i “due stati”. E’ una quota declinante fra gli intervistati, ma resta solida malgrado la retorica ossessiva della  destra circa la mancanza di partners e le nequizie infinite dei palestinesi. Ma allorchè si precisano i dettagli di un accordo  sulla base dei negoziati passati,  un accordo che preveda la nascita di uno stato palestinese smilitarizzato, il ritiro di Israele sui confini pre-67 con scambio di territori, il ritorno in Israele di circa 100.000 profughi palestinesi in virtù della riunificazione delle famiglie, Gerusalemme capitale dei due stati con il Muro del pianto e il quartiere ebraico sotto giurisdizione israeliana , il Monte del Tempio e i quartieri cristiano e mussulmano sotto quella palestinese,  sarebbe approvato appena dal 41 % degli ebrei israeliani, dall’88 degli arabi israeliani e dal 42 dei palestinesi.

Su questi  incerti strati d’opinione tendono ad orientare la loro azione nuovi movimenti di base, che nascono dalla società civile, ma faticano per ora a tradursi in azione politica : fra questi, Darkenu –  volontari che agiscono quasi “porta a   porta” nelle periferie del paese, fra gli elettori di destra, gli strati più marginali della società che non intravvedono il legame fra la loro povertà, le disuguaglianze acute nel paese e il costo dell’occupazione – e “Women wage peace” – un movimento di donne  nato appena l’anno scorso e che ha portato migliaia di donne, ebree ed arabe, a marciare per giorni nell’ottobre invocando la fine del conflitto. In una visita a Sderot, la città scossa da anni dalla guerra di guerriglia condotta da Hamas  e ad Ofakim, una modesta città di sviluppo nel Negev, donne di questo movimento,  di famiglie originarie dei paesi arabi e orientate per tradizione a votare per la destra  ci danno il senso del potere trasformativo di siffatte  azioni dal basso.

Quanto alle ONG più affermate nel campo della pace, aggregate in un Foro che ne coordina più di 100, diretto da Yuval Rachamim, prima Direttore di Parents’Circle, sono in una condizione difficile sotto la minaccia di una proposta di legge di Netanyahu che vieterebbe il finanziamento da parte di governi o istituzioni internazionali. Di quelle che beneficiano di tali fondi ben  25 su 27 sono ONG attive sul fronte della pace e della difesa dei diritti umani.

 

  1. Azioni sul terreno

 

Due i momenti di grande potenza emotiva : il primo, l’esserci uniti ad una Marcia lungo la Linea verde – il confine armistiziale fra Israele e Giordania del 1949, tuttora riconosciuto internazionalmente come il confine di Israele, ma rimosso dalla pubblicistica ufficiale in Israele (mappe, libri di testo) – organizzata da Machsom Watch – la ONG composta essenzialmente da donne che vigila sul comportamento dei militari nei posti di blocco e lungo i punti di frontiera fra Israele e la Cisgiordania, conclusasi  con una serata di discorsi, letture di testi e canti ispirati alla pace a Neve Shalom, la comunità  arabo-ebraica  fondata da Bruno Hussar; il secondo, la visita con Machsom Watch alle 5 di mattina di un giorno qualsiasi  al posto di blocco di Eyal, vicino a Qalqilia, un luogo di ingresso di lavoratori palestinesi diretti ai posti di lavoro in Israele. Circa 120.000 palestinesi lavorano legalmente in Israele, soprattutto nel settore delle costruzioni e dei servizi ; un numero incerto di “illegali” inoltre  varca la barriera di separazione e trova un qualche lavoro occasionale nelle  città di Israele. Il controllo è affidato alla tecnologia delle impronte digitali e alla vigilanza di guardie private  in virtù di contratti con l’esercito ; dall’altra parte del confine dopo un passaggio stretto da inferriate una marea immane di furgoni, pullman, auto private  attende gli operai, una vita segnata dalle 3 di mattina alle 7 di sera dalla povertà che affligge i loro villaggi e dal bisogno di assicurare qualcosa alle famiglie ( il reddito pro capite in Cisgiordania è intorno ai 3000 euro annuali contro oltre 30.000 in Israele).

Poi a Hebron, in una visita guidata da Lior Amichai, di Shalom Achshav : una città segregata, da una parte 200-300.000 palestinesi , dall’altra circa 700 ebrei, raccolti in alcune strade di una zona limitata , dove si alternano case e yeshivot, protette da garitte, inferriate e soldati di guardia. Vigilano anche e si interpongono in momenti di frizione osservatori internazionali fra cui alcuni  nostri carabinieri. Una delle strade principali è  ancora in parte abitata da arabi;  si susseguono negozi sigillati, abbandonati, spettrali, i muri coperti di graffiti e cartelli che celebrano il “possesso” ebraico di Hebron, il ritorno degli ebrei dopo l’eccidio del ’29 e la riconquista del ’67.

A Gerusalemme, in compagnia di un giovane di Ir Amim[5], ci appare la complessità di una città, che la retorica ufficiale celebra come “capitale unita, eterna, indivisibile” di Israel,  invece profondamente divisa, etnicamente e socialmente. Basta un occhio intellettualmente onesto, una visita a quartieri come Jabel Mukabber, Sur Bahar o Ras Al Amud a sud, o più  a nord Beit Hanina  o Shuafat.  Nella parte ovest  della città vivono circa 300.000 ebrei israeliani, nella parte est 230.000 israeliani e 350.000 palestinesi, con lo status di residenti permanenti; questi ultimi sono  in larga parte nativi della città, riconosciuti dopo l’annessione del ’67 come residenti, ma non cittadini dello stato nella cui capitale essi vivono, nel perenne timore che i loro diritti siano revocati se lasciano la città per studiare all’estero o per altre ragioni.   Secondo le proposte di Clinton nei negoziati di Camp David del 2000 i quartieri “ebraici” sarebbero stati parte di Israele, quelli “arabi” parte della Palestina; un principio simile si sarebbe attuato nella città vecchia. Ma il governo di Israele è ostinatamente contrario alla condivisione della città, punto invece irrinunciabile per i palestinesi.

 

Giorgio Gomel

Ha Keillah, luglio 2017

[1]  Vedi miei articoli, Ha Keillah, ottobre 2016 e maggio 2017

[2]  www.2states1homeland.org

[3] Materiale dettagliato sul loro piano “Security first” si trova in www.en.cis.org.il

[4] Polls by Tami Steinmetz Center for Peace Research, Tel Aviv University e Palestinian Center for Policy and Survey Research, Ramallah. Dicembre 2016

[5] Ir Amim è una ONG israeliana che sostiene l’idea di una  Gerusalemme fisicamente unita e capitale condivisa dei due stati – Israele e Palestina – con opportune autonomie municipali da negoziarsi fra le parti. Nel frattempo, combatte perché siano assicurati servizi sociali e sanitari decenti ai quartieri arabi di Gerusalemme est separati dalla città  dalla “barriera” e lo status quo a tutela dei luoghi sacri nella città vecchia sia rigorosamente osservato ( per dettagli, cfr. www.ir-amim.org.il)

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