Daniel Bar-Tal ha insegnato psicologia politica all’Università di Tel Aviv; ha scritto lavori sulle barriere psico-sociali alla soluzione di conflitti; ha analizzato, in particolare, gli effetti politici, legali, e socio-culturali dell’occupazione israeliana di territori palestinesi [1].
Ha tratto dall’indagine scientifica ispirazione e alimento per la denuncia dell’occupazione e dei suoi costi. Essa opprime e umilia gli occupati, ma corrompe altresì gli occupanti. “Lo sforzo di nazionalisti e della destra religiosa – osserva Bar-Tal – è stato quello di trasformare un’occupazione temporanea in conquista, volta non solo a mantenere il controllo dei territori, ma a colonizzarli e annetterli a Israele. Gli insediamenti sono stati la sciagura dell’occupazione perché hanno comportato la cattura illegale di terre e risorse idriche, l’insediarsi di un numero elevato di persone e la correità dell’esercito nella protezione dei coloni e nella repressione dei palestinesi.
Con lui ex diplomatici, parlamentari, ministri e diplomatici, accademici, scrittori e artisti, nonché diversi ex alti ufficiali dell’esercito, spinti da un senso di urgenza circa il futuro di Israele, per il degrado di norme e prassi democratiche di convivenza nel paese e per il pericolo che il persistere dell’occupazione conduca di fatto ad uno stato binazionale in cui i palestinesi restano privati di ogni diritto. In uno dei documenti della campagna SISO da loro avviata con l’Appello agli ebrei del mondo i promotori affermano : “ Noi crediamo che mezzo secolo di occupazione sia ormai troppo e che da tempo sia ora di porvi fine… Far durare ancora questa situazione condanna i due popoli che condividono la terra a un inutile spargimento di sangue … La creazione di uno stato di Palestina accanto allo stato di Israele … impedirà i tentativi di fondere le due entità in una terra di Israele dove vige l’apartheid, come propugnato dalla destra israeliana dominata dai coloni”.
Cosa distingue questa campagna da altri ripetuti e falliti tentativi di giungere ad un accordo di pace che contempli il ritiro di Israele dalla West bank e una soluzione “a due stati” del conflitto ?
Tre elementi fondamentali :
L’attenzione ai costi distruttivi dell’occupazione per Israele stesso. Altri tipi di occupazione militare nella storia degli stati non hanno sortito tali conseguenze perché gli stati occupati erano distanti fisicamente, o non vi era un’azione rivolta sistematicamente ad insediare coloni o perché il potere occupante non era una democrazia. Israele è in questo senso un caso speciale.
La campagna è rivolta in Israele non all’opinione pubblica ostinatamente annessionista, nutrita dell’ideologia dell’estremismo nazional-religioso, ma a quella parte della società scettica circa le possibilità di un accordo di pace, quasi rassegnata all’ineluttabilità del conflitto, che non subisce i costi dell’occupazione o non ne è consapevole. È un processo ostacolato da preconcetti difficili da rimuovere dopo 50 anni. Nei sondaggi recenti [2], mentre israeliani e palestinesi ancora sostengono in prevalenza, pur con consensi declinanti, la soluzione “ a due stati” – rispettivamente 59 e 51 per cento – , il 72 per cento degli ebrei israeliani ritiene che il dominio che Israele esercita sui palestinesi non sia “occupazione”. Ma come chiamare una realtà, in cui vi è un sistema legale doppio e separato – militare per i palestinesi, civile per gli abitanti ebrei ivi insediatisi – ; un potere, quello della Civil Administration, braccio amministrativo dell’esercito, che espropria terreni privati per insediamenti ebraici e decide unilateralmente in materia di permessi edilizi, di confisca di terre per uso militare, di permessi di transito e di lavoro, ecc.? Una tale pervicace “cecità” è il risultato deliberato di anni di rimozione della realtà (la linea verde, il confine armistiziale pre-67 rimosso dalle mappe, dai libri di scuola, dai documenti ufficiali dello stato; il costo effettivo degli insediamenti celato dal bilancio pubblico).
La campagna di SISO è rivolta precipuamente alla Diaspora mondiale perché essa, malgrado i guasti geopolitici del Medio Oriente, l’irrompere del terrorismo islamista, il cataclisma umanitario in Siria e Iraq, non sia spettatrice indifferente e inane di quanto accade in Israele, ma unisca voce ed azione a quella degli israeliani per il fine comune. Il movimento che si sta formando in sostegno all’Appello include ebrei di paesi europei, delle Americhe, dell’Australia. In Europa JCall lo sostiene. Il proposito è svolgere incontri, spettacoli, attività educative nelle comunità del mondo fino al giugno 2017, 50 anni dalla guerra dei sei giorni e dall’inizio dell’occupazione. L’appello rivolto alla diaspora manifesta l’angoscia che attanaglia questa parte della società israeliana. Tipicamente, anche nella sinistra in Israele, il rapporto con la diaspora è stato controverso. La diaspora, percepita come irrilevante per le sorti di Israele, decise dai suoi cittadini, pur con gli agi dell’appoggio materiale e morale degli ebrei del mondo. Qui l’atteggiamento è opposto: si invoca un’azione coesa e comune dei due poli dell’ebraismo per salvare Israele dalla pulsione autodistruttiva che lo spinge lontano da quello “stato democratico degli ebrei” voluto e fondato dal sionismo classico, herzliano e socialista.
Giorgio Gomel
[1] Daniel bar-Tal and Itzhak Schnell (eds), The impacts of lasting occupation : lessons from Israeli society, Oxford U.P., 2012
[2] Israel democracy Institute, Peace index, giugno 2016