Gerusalemme capitale: l’unilateralismo e il futuro dei due Stati

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Gerusalemme capitale d’Israele – proclama Donald Trump unilateralmente –. pur affermando nel prosieguo del suo discorso che gli Stati Uniti “non intendono assumere una posizione sulle questioni relative allo status definitivo [del conflitto israelo-palestinese], inclusi i confini specifici della sovranità israeliana su Gerusalemme o la definizione delle frontiere  contese fra le parti”.

Così, con il suo tipico tono fra il tranchant, il facilone e l’arrogante, il presidente americano ignora la complessità simbolica, identitaria, religiosa nonché squisitamente politica d’una città che Israele celebra  dall’annessione della parte orientale nel 1980 come “capitale unita, eterna e indivisibile” , il cui status però nessun governo al mondo ha riconosciuto e che secondo i dettami dell’accordo di Oslo del 1993 doveva essere oggetto di negoziati fra israeliani e palestinesi.

Una città profondamente divisa, etnicamente e socialmente
La decisione americana non riconosce quindi la natura duale della città e lo status dei suoi residenti arabi.  Negli ultimi trenta’anni, Israele ha  incorporato nella città estesi quartieri e villaggi palestinesi che non appartenevano alla Gerusalemme del passato; ha edificato interi quartieri ebraici come Gilo e Pisgat Ze’ev; e ha permesso ad ebrei fondamentalisti di occupare case in quartieri centrali quali il quartiere mussulmano della città vecchia o Silwan, un tempo abitati soltanto da arabi.

La città,  invece, resta profondamente divisa, etnicamente e socialmente. Basta visitare quartieri arabi come Jabel Mukabber o Ras Al Amid a sud oppure Beit Hanina o Shuafat più a nord, magari in compagnia di un attivista di Ir Amim  (città dei popoli in ebraico), una Ong israeliana che propugna una Gerusalemme fisicamente unita ma capitale condivisa dei due Stati – Israele e la Palestina – con un sistema di autonomie municipali e  amministrative da negoziarsi fra le parti.

La situazione e le inquietudini nella parte orientale
Nella parte orientale della città vivono circa 230.000 israeliani  e quasi 350.000 palestinesi con uno status di residenti permanenti, liberi quindi di muoversi nel Paese, ma privi del diritto di acquistare terreni di proprietà statale e di partecipare alle elezioni parlamentari in Israele, con il perenne timore che tale status venga revocato se lasciano la città per motivi di studio, lavoro o altro. Dal 1967 circa 15.000 arabi gerosolimitani hanno subito tale disgrazia.

Inoltre, pur potendo votare nelle elezioni locali, larga parte dei residenti rifiutano di partecipare alla vita civile e politica della città e anche per questo motivo i servizi municipali nelle zone da loro abitate – istruzione, giustizia, rifiuti, infrastrutture – sono nettamente inferiori a quelli erogati nei quartieri ebraici. Inoltre, da quando Israele ha costruito il ‘muro di separazione’ al fine di contrastare l’offensiva terroristica scatenata dalla seconda Intifada, alcuni quartieri arabi sono rimasti ad est del muro ed esponenti della destra israeliana propongono ora di rimuoverli dalla giurisdizione di Gerusalemme, abbandonandoli a uno status ambiguo di uno Stato palestinese che non c’è.

Un atto simbolico, che non scalda l’opinione pubblica israeliana e indebolisce il negoziato
La dichiarazione di Trump è in larga parte un atto simbolico, come conferma la reazione dell’opinione pubblica in Israele, piuttosto tiepida, al di là del trionfalismo del premier Netanyahu. Un atto simbolico e politico rivolto principalmente alle   vicende interne di  un’Amministrazione fortemente contestata.  Ma con conseguenze nefaste sul campo, rigurgiti di rabbia violenta, vittime, massicce proteste promosse dagli integralisti nei Paesi mussulmani, così come successe in seguito ad altri tentativi di alterare lo status quo della città: nel 1996 per gli scavi archeologici in un tunnel sotto le mura, nel 2000 per la visita di Ariel Sharon sul Monte del Tempi o- Spianata delle Moschee, appena qualche mese fa per l’imposizione di metal detectors all’ingresso della Spianata  stessa.

La decisione  rappresenta un successo indubbio per il governo di Israele, in quanto rimuove uno degli incentivi per un negoziato serio con i palestinesi. Vi è una profonda asimmetria, infatti,  fra le due parti in lotta quanto ai termini del negoziato: i palestinesi non possono offrire a Israele in un accordo di pace altro che il riconoscimento di Israele, della sua esistenza legittima nella regione, del controllo dei luoghi santi all’ebraismo a Gerusalemme, dei confini dello Stato, forse dell’annessione a Israele di alcuni “blocchi di insediamenti” prossimi alla Linea Verde del 1967 con uno scambio paritario di territori.

Netanyahu può ottenere ora l’intera  Gerusalemme senza nulla in cambio, grazie ad una decisione unilaterale degli Stati Uniti e alla debolezza dei palestinesi isolati e ignorati  dal mondo arabo. Più in generale il suo governo avrà ancora meno motivi per negoziare seriamente con i palestinesi e acquisterà più forza la pretesa della destra e dei coloni per cui i  fatti compiuti sul terreno – la conquista di terre, l’espansione degli insediamenti –  sono ben più importanti  della diplomazia e della ricerca del  compromesso.

Giorgio Gomel

Affarinternazionali

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