I palestinesi, l’economia, la politica
Nel giugno scorso in Bahrein il governo americano illustrò un programma massiccio di investimenti (50 miliardi di dollari), da destinarsi su un orizzonte di 10 anni ad infrastrutture, fonti di energia, istruzione e sviluppo industriale in favore (per oltre la metà) dei palestinesi residenti fra la Cisgiordania e Gaza; il resto diretti a Giordania, Egitto e Libano, in forma di doni, prestiti agevolati e flussi di capitale privato, ai fini di un programma di riabilitazione ed integrazione in quegli Stati dei profughi palestinesi ivi insediati. I potenziali donatori sarebbero in primis gli Stati arabi del Golfo, gli Stati Uniti e altri (indefiniti). Un patchwork eterogeneo, che molti osservatori giudicano velleitario e impossibile a realizzarsi.
La premessa del piano e dell’impostazione ideologica del duo Trump-Kushner è che sviluppo e prosperità possano condurre ad una soluzione del conflitto che contrappone Israele ai palestinesi. Il concetto in base al quale la “peace economics” – un complesso di aiuti e incentivi – potrebbe spingere i palestinesi ad abdicare alla loro aspirazione ad uno Stato sovrano e ad accettare in cambio di vantaggi economici una condizione di soggezione politica denota semplicismo e arroganza. Nonché una crassa ignoranza della storia delle trattative fra le parti: nel trattato di pace fra Israele ed Egitto del 1979, così come negli accordi di Oslo del 1993 con i palestinesi, la dimensione politica è stata dominante rispetto all’economia. L’economia palestinese non può espandersi se non si allentano le restrizioni ai movimenti di persone e beni imposte dal regime di occupazione. Nell’area C della Cisgiordania – così definita dagli accordi di Oslo e che ne rappresenta circa il 60% della superficie, dove vivono circa 100.000 palestinesi e gli oltre 400.000 coloni israeliani distribuiti in una congerie di insediamenti – è essenziale consentire quello sviluppo di attività economiche e di investimenti abitativi che invece il persistere dell’occupazione limita e inibisce.
La dimensione politica della trattativa e la ripresa di un negoziato volto a definire lo status finale dei territori restano quindi un elemento essenziale. Ma su questo ha gravato una sequela di atti unilaterali e corrivi con la destra al governo in Israele negli ultimi mesi, atti contraddittori rispetto ad una soluzione basata sull’idea di “due Stati per due popoli”: dalla decisione trionfalisticamente conclamata di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme alla chiusura dell’ufficio dell’OLP a Washington, dall’improvvido sostegno ad un’eventuale annessione delle alture del Golan a Israele alle affermazioni circa la “legalità” degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, alla riduzione drastica di fondi diretti ad istituzioni e società civile palestinesi. Atti, e il linguaggio spesso offensivo che li sottende, che tradiscono una posizione americana non più di mediazione equa fra le parti ma uno sdegnoso, tracotante rifiuto dei diritti dei palestinesi.
Il piano di pace e le sue antinomie
Dopo oltre due anni di gestazione e con un tempismo strumentale alla campagna elettorale di Trump e Netanyahu – l’uno stretto dalle procedure di impeachment, ma con il massiccio sostegno da parte dei fondamentalisti cristiano-evangelici, la sua constituency politica più compatta, l’altro in attesa di processo con imputazioni di corruzione ed ansioso di preservare il consenso dei coloni e l’alleanza di governo con la destra nazionalista e religiosa – l’Amministrazione americana ha reso noto il suo piano in un documento detto “Peace to prosperity” di 180 pagine, di cui due terzi dedicati ai temi dell’economia.
Non un piano di pace, bensì un quasi diktat imposto unilateralmente alle parti. Esso contraddice accordi precedenti in materia di confini, insediamenti, rifugiati e lo status di Gerusalemme. È in contrasto con le risoluzioni rilevanti delle Nazioni Unite e con il principio ispiratore di anni di trattativa per cui il conflitto può e deve essere risolto sulla base del rispetto dei diritti nazionali dei due popoli e della coesistenza fra due Stati sovrani. Umilia i palestinesi e rafforza la retorica della destra in Israele che rifiuta, con forte presa nell’opinione pubblica, di riconoscere l’Autorità palestinese (ANP) e il suo Presidente Abbas come partner nel negoziato e ritiene che la stessa soluzione del conflitto non sia una priorità del paese. Vi è in atto da tempo nella società israeliana uno spostamento di fondo verso posizioni radical-nazionaliste: una vasta parte di essa guarda ai palestinesi come a un qualcosa di “invisibile” dietro il muro di separazione, un nemico ingrato e irriducibile che può essere contenuto in un conflitto “a bassa intensità”. Vivono fra il Mediterraneo e il Giordano, in un viluppo complesso, 6,7 milioni di ebrei e circa lo stesso numero di arabi (circa 1,8 milioni cittadini di Israele, quasi 2 milioni a Gaza, quasi 3 in Cisgiordania). Secondo inchieste d’opinione, non più del 40% degli israeliani sostiene convinto una soluzione “a due Stati”, il 15% opta per uno Stato unico senza diritti per i palestinesi, poco più del 10% per uno Stato binazionale su base egualitaria che assicuri pieni diritti ai palestinesi; il resto è confuso, ambivalente, incerto.
Secondo il piano, Israele potrà annettere la valle del Giordano, abitata da circa 80.000 palestinesi e 10.000 israeliani, e la totalità degli insediamenti dove vivono oltre 400.000 israeliani – in toto quasi il 30% della Cisgiordania – cedendo in cambio il 14% di territorio lungo il deserto del Negev non distante dalla striscia di Gaza. Questo “scambio” di territori è vistosamente lontano da quanto discusso in precedenti trattative fra le parti (a Taba nel 2001 e Annapolis nel 2008, dove offerte pragmatiche di Israele furono respinte da Arafat e Abbas). Secondo Shaul Arieli – uno dei maggiori esperti israeliani in materia di status di Gerusalemme e degli insediamenti, che ritiene che la soluzione “a due Stati” sia ancora possibile – 130.000 circa degli oltre 400.000 coloni vivono infatti in agglomerati vicino alla Linea verde (il confine di Israele pre-1967) e uno scambio paritario di territori pari a circa il 4% consentirebbe di mantenere sotto la sovranità di Israele quasi l’80% degli stessi coloni senza pregiudicare le esigenze di continuità territoriale di un futuro Stato di Palestina.
Uno Stato palestinese, secondo il piano di Trump, potrà essere istituito fra 4 anni, ma soggetto a condizioni stringenti in materia di stato di diritto, rispetto dei diritti umani, programmi scolastici – che dovranno bandire l’apologia dell’irredentismo guerrigliero della vecchia OLP -, rinuncia al sostegno finanziario dell’ANP alle famiglie di “terroristi” uccisi, disarmo pieno di Hamas e della Jihad islamica. Soprattutto, il futuro Stato sarà privo di effettiva sovranità, soggetto ad un regime “demilitarizzato” e privo di controllo sui confini e sulle risorse idriche. In qualche modo potrà essere assicurata una continuità territoriale fra le città palestinesi, ma resteranno 15 remoti insediamenti israeliani come enclaves in seno all’entità-stato ed esso non godrà di contiguità, se non con un complesso sistema di gallerie e ponti, da un lato con la striscia di Gaza, dall’altro con i ponti sul Giordano che sono i punti di passaggio con e dalla Giordania. Una rete di strade da edificarsi dovrà consentire i collegamenti necessari fra il futuro Stato e i villaggi palestinesi nelle zone incorporate a Israele, i cui abitanti resteranno cittadini dello Stato di Palestina.
Un numero limitato di rifugiati, oggi dispersi nei paesi arabi vicini, potrà insediarsi nel futuro Stato, ma – diversamente da quanto prefigurato nelle trattative di Camp David e Taba nei primi anni 2000 – non potrà “ritornare” in Israele né beneficerà di indennizzi finanziari.
Gerusalemme, infine, resterà nella sua interezza sotto l’esclusiva sovranità di Israele. La capitale del futuro Stato palestinese si costituirà lungo l’area a nord-est della città, al di là della barriera di separazione: un’area negletta, povera di servizi socio-sanitari e separata dalla città, dove una parte preponderante dei 120.000 palestinesi che ivi vivono peraltro lavora, studia, usufruisce di servizi. I 200.000 palestinesi abitanti nella Gerusalemme est potranno mantenere lo status di residenti in Israele di cui godono od optare per la cittadinanza palestinese. La città vecchia e i luoghi sacri resterebbero sotto la giurisdizione di Israele con accordi con le diverse confessioni religiose, ma il Monte del Tempio con le Moschee di Omar e Al-Aqsa, pur sotto il controllo del Waqf mussulmano e della Giordania, sarebbe aperto alla preghiera anche di ebrei, contrariamente allo status quo osservato dal 1967; ciò rischia di alimentare esplosioni di violenza interreligiosa come già in anni recenti.
Le conseguenze : il che fare
Alcuni osservatori notano che il piano, pur nel suo unilateralismo in favore di Israele, riconosce una situazione esistente di fatto: cioè che Israele abbia già annesso gli insediamenti e trasferito ai coloni ivi residenti la legislazione israeliana. Vige infatti nell’area C della Cisgiordania un sistema legale doppio e separato: gli israeliani rispondono alla legge civile di Israele, i palestinesi sono soggetti al regime di occupazione. Ma allora perché ambire ad annettere la valle del Giordano, atto che – come ricorda Ehud Barak, ex Primo ministro e Ministro della difesa, ora all’opposizione – inasprirà i rapporti con la Giordania legata ad un trattato di pace con Israele da 25 anni? D’altra parte la valle del Giordano, il confine con la Giordania, il “fronte orientale” di Israele non rappresentano più una minaccia strategica per lo Stato ebraico: non l’Iraq, non l’ISIS né altri potenziali attori non statali.
L’unico costo o concessione che il piano esige da Israele è quel 70 % della Cisgiordania dove dovrebbe formarsi l’entità-stato di Palestina; di qui la protesta dei movimenti della destra integralista che accusano il piano Trump di imporre una spartizione della Palestina (o Terra di Israele) che essi immaginano, per ragioni storico-teologiche, riservata nella sua integrità al possesso esclusivo degli ebrei.
Ai palestinesi il piano chiede invece di accettare uno stato permanente di soggezione a Israele: la loro stessa sicurezza sarebbe consegnata ai benevoli comportamenti della controparte; solo forze di polizia sarebbero ammesse, lo Stato in fieri avrebbe confini solo con Israele e senza un controllo autonomo sugli stessi. Non vi è menzione alcuna dell’urgenza di una riabilitazione economico-umanitaria nella striscia di Gaza e di un accordo fra Israele e Hamas che ponga fine alla sciagurata guerriglia da questa mossa contro il sud di Israele e al tempo stesso porti alla rimozione del blocco che Israele ivi impone dal 2007.
Abbas, Presidente della ANP, ha dichiarato il suo rigetto del piano e ribadito l’impegno già ventilato più volte di abbandonare ogni cooperazione in materia di sicurezza fra la polizia palestinese e Israele. La Lega Araba lo appoggia e afferma di non volere cooperare in alcun modo con i propositi degli Stati Uniti. Ma i palestinesi sono deboli, divisi fra Gaza e Cisgiordania, tra Hamas e Fatah, osteggiati da una parte rilevante del mondo arabo. È noto da tempo il progresso verso l’instaurarsi di rapporti normali fra Israele e i paesi arabi sunniti della regione del Golfo, uniti in una “santa alleanza” in funzione anti-iraniana e ansiosi di cooperare in campo commerciale, tecnologico e militare. Ad alcuni dei despoti al potere in questi Stati, l’insistenza dei palestinesi sul diritto di autodeterminazione in uno Stato indipendente è un motivo di fastidio, benché tale irrisolta questione si frapponga tuttora al riconoscimento e a un pieno accordo di pace con Israele. L’Arabia Saudita e lo stesso Egitto hanno reagito con prudente interesse al piano americano.
In un contesto così difficile i paesi europei dovranno assumere una posizione. Per lungo tempo, in seguito alla paralisi dei negoziati diretti fra le parti in causa e consapevoli della primazia degli Stati Uniti per la loro azione di mediazione nel conflitto e per l’influenza da essi esercitata su Israele, essi hanno optato, anche per divisioni interne e spinti a ripiegarsi sulle crisi della UE, per un atteggiamento di “wait and see” in attesa delle decisioni americane.
Oggi, ritengo, la UE dovrebbe:
1) opporsi al piano di Trump;
2) difendere la soluzione “a due Stati” in coerenza con i parametri concordati in sede internazionale;
3) confermare il proprio impegno a distinguere fra Israele e gli insediamenti, richiamandosi alla recente sentenza della Corte europea di giustizia circa l’esigenza di etichettare le produzioni di beni di tali insediamenti in modo corretto e non come “made in Israel”;
4) sostenere la società civile nei due paesi e le tante ONG che lavorano insieme, con mille difficoltà, in difesa dei diritti umani e a sostegno a forme di cooperazione in campo sanitario, educativo, ambientale.
*Una versione più breve dell’articolo sarà pubblicata anche sulla rivista Affarinternazionali dell’IAI